domenica 3 luglio 2011

Fonti extrabibliche sull'esistenza storica di Gesù di Nazareth


TALLO

Si tratta probabilmente della prima testimonianza non cristiana storica su Gesù che ci è pervenuta. Tallo era uno storico romano, o samaritano. I suoi scritti risalgono al 52 d.C. e sono andati tutti perduti. Oggi abbiamo soltanto alcuni frammenti presenti in altri autori che lo citano. Tallo scrisse una storia universale cominciando dalla Guerra di Troia fino a suoi giorni. In questa opera, lo storico romano parlò di Gesù Cristo e in particolare cercò di spiegare in senso razionale l’oscurità che scese su tutta la terra al momento della crocifissione, sostenendo che questo fenomeno fu dovuto ad una eclisse solare. Questo lo sappiamo da Giulio l’Africano (170-240 d.C. circa), autore cristiano, che riporta, criticando, quanto scritto da Tallo.
"Tallo, nel terzo libro della sua Storia, definisce questa oscurità un’eclisse solare. Questo mi sembra inaccettabile. “
Anche un autore greco Flegonte di Tralle (II sec.) cita il passo di Tallo in cui parla dell’eclisse che causò l’oscurità nel momento della crocifissione, dicendo che avvenne nella duecentoduesima olimpiade (39 d.C.) e ci fu talmente buio che si videro le stelle.
La testimonianza di Tallo, ripresa da Giulio l’Africano, è una testimonianza indiretta su Gesù: il fatto che egli parli dell’ «eclisse» che è avvenuta durante la crocifissione, implica che egli considera come un fatto storico l’esistenza di Gesù.


PETRONIO

Petronio, autore latino del I sec., scrisse un’opera dal titolo Satyricon, dove viene riportato un episodio dal titolo La matrona di Efeso. Oggi, la critica si dibatte se questo Petronio sia da identificare con Petronio Arbitro maestro di sfrenatezze di Nerone, oppure si tratta di un altro personaggio. Molti studiosi sono orientati per l’attribuzione del Satyricon proprio al cortigiano di Nerone. In tal caso, essendo Petronio Arbitro morto suicida nel 66 d.C. , sorprende che nel brano La matrona di Efeso, ci siano numerosi richiami ad episodi del Vangelo e che proverebbero l’antichità dei Sinottici.
            In pratica, Petronio narra (probabilmente per ironizzare contro chi sosteneva la risurrezione di Cristo)  che furono crocifissi due uomini vicino alla tomba di un altro uomo appena morto che veniva pianto notte e giorno dalla moglie (la matrona di Efeso). Il soldato che era di guardia ai due crocifissi finisce per adescare la donna e si unisce a lei nella tomba del marito defunto. Nel frattempo, i parenti di uno dei due crocifissi, vedendo che il soldato non era più a guardia ai due giustiziati,  tirano giù dalla croce il corpo del loro caro defunto (sarebbe questa l’allusione di Petronio all’accusa fatta ai discepoli di Cristo del trafugamento del corpo di Gesù). Il soldato, accortosi che era rimasto soltanto un cadavere sulla croce e temendo di essere giustiziato, per celare il furto, appese alla croce il cadavere del marito della donna che nel frattempo era diventata la sua amante.
 C'era una volta ad Efeso una matrona di così rinomata pudicizia che accorrevano ad ammirarla anche le donne dei paesi vicini. Ora questa donna, dopo aver perduto il marito […]. Quand'ecco che nel frattempo il governatore della provincia fece crocifiggere dei ladroni proprio vicino a quella tomba in cui la matrona piangeva il cadavere ancora fresco del marito. La notte seguente, dunque, un soldato che faceva la guardia alle croci per evitare che qualcuno sottraesse i corpi e desse loro sepoltura, avendo notato una luce che risplendeva sempre più vivida tra i monumenti funebri e avendo udito il gemito di qualcuno che piangeva, per umana curiosità fu preso dal desiderio di sapere chi fosse o che cosa facesse. Scese quindi nel sepolcro e, vista una donna bellissima, in un primo momento si fermò sbigottito come davanti ad un fantasma o ad un'apparizione infernale, ma poi, quando vide il corpo del morto e considerò quelle lacrime e quel volto graffiato dalle unghie, resosi conto della situazione reale, del fatto cioè che la donna non poteva sopportare la perdita del marito, portò nel sepolcro la sua cenetta e incominciò ad esortare la donna in lacrime a non perseverare in un dolore del tutto inutile e a non rompersi il petto con singhiozzi che non avrebbero portato alcun giovamento.[…]
A farla breve, la donna […] e il soldato […] giacquero dunque insieme non solo quella notte, in cui consumarono le nozze, ma anche il giorno seguente e il terzo giorno, naturalmente dopo aver ben chiuso le porte del sepolcro, di modo che, chiunque si fosse avvicinato al monumento funebre, conosciuto o sconosciuto che fosse, pensasse che la castissima moglie fosse morta sopra il corpo del marito.
Intanto il soldato, attratto dalla bellezza della donna e dalla segretezza di quell'amore, comprava tutto ciò che di buono poteva con i suoi scarsi mezzi e subito, al calar della notte, lo portava nella tomba. Perciò i parenti di uno dei crocifissi, come videro che la sorveglianza era diventata meno stretta, una notte tirarono giù il loro congiunto appeso e gli resero gli estremi onori. Ma il soldato, raggirato mentre si dava al bel tempo, non appena il giorno seguente vide una delle croci senza cadavere, temendo di essere giustiziato, spiegò alla donna che cosa fosse successo: e aggiunse che non avrebbe aspettato la sentenza del giudice, ma avrebbe fatto giustizia della sua incuria con la spada. Solo, concedesse lei stessa un posto a lui che stava per morire e rendesse comune al marito e all'amante quel sepolcro fatale. La donna, non meno pietosa che casta, rispose: "Gli dèi non permettano che io veda in così breve tempo i due funerali dei due uomini a me più cari! Preferisco appendere alla croce il morto che far morire il vivo". Conformemente a questo discorso, ordinò di togliere dalla bara il cadavere di suo marito e di attaccarlo alla croce che era rimasta libera. Il soldato mise in atto la trovata di quella donna così assennata, e il giorno dopo la gente si chiese con meraviglia come avesse fatto il morto a salire in croce.
 Come si può notare, il passo sembra voler fare una parodia circa la crocifissione e la risurrezione di Cristo. Si notano infatti i  seguenti elementi di assonanza con il Vangelo: il governatore potrebbe essere un’allusione a Pilato, la crocifissione dei 2 ladroni, i 3 giorni che il cadavere passa nel sepolcro, il furto del cadavere (una colpa di cui erano accusati i discepoli di Gesù dai giudei e dai romani).
Si può confermare la credibilità storica dei Vangeli. e affermare la loro. composizione anteriore all'anno 70. Le prove in alcuni romanzi antichi.
Petronio e Caritone di Afrodisia:
Due testimoni della storicità dei vangeli
 
Petronio era consigliere di stile di Nerone; cadde in disgrazia nel 65 e fu costretto al suicidio, come vari Stoici perseguitati dal tiranno, le cui morti esemplari Petronio parodiò con la propria. Era infatti maestro di parodia, di cui riempì il Satyricon, scritto in quel 64 che vide la prima persecuzione: Nerone fece ricadere la colpa dell'incendio di Roma sui Cristiani, già invisi al popolino per i loro presunti crimini, infanticidio e incesto, derivati dal fraintendimento dell'eucaristia e dell'usanza cristiana di chiamarsi «fratelli».
I Cristiani, già numerosi a Roma, furono uccisi in modo spettacolare, destando commiserazione anche tra i pagani, secondo Tacito. Petronio allora affiancava Nerone e stava scrivendo il suo romanzo, il Satyricon, in cui allude chiaramente all'incendio.
E sembra alludere anche ad episodi evangelici e ai Cristiani, che non poteva non conoscere.
 
1) L'unzione di Betania sembra parodiata ove il parvenu Trimalcione, in un con testo conviviale, prende del nardo e ne cosparge i convitati in prefigurazione del suo uso funebre sul suo corpo alla sepoltura. Similmente, Gesù ci dice che la donna che lo ha cosparso di nardo ha preparato il suo corpo alla sepoltura. I due passi sono gli unici in tutta l'antichità in cui il nardo è usato in un contesto conviviale in prefigurazione del suo uso funebre. Inoltre, Trimalcione per una predizione è convinto di avere ancora molti anni da vivere: perché insiste sulla sua morte come imminente? Con un riferimento al Vangelo si spiegherebbe.
2) II canto del gallo che denuncia il tradimento di Pietro e annunzia il giorno della morte di Gesù sembra parodiato nella scena in cui il canto di un gallo, nel mondo classico sempre considerato segno positivo, è invece ritenuto annuncio di una sciagura mortale - unico caso in tutta la letteratura classica insieme al Vangelo - e il gallo è detto index, denunciatore.
3) L'Eucaristia è parodiata ove il protagonista si finge possessore di un bene prezioso che lascerà a quanti taglieranno il suo corpo in parti e ne mangeranno al cospetto di tutti. Analogamente, i Cristiani sin dalle origini mangiavano con l'Eucaristia il corpo di Cristo frazionando il pane in parti al cospetto della comunità, per entrare in possesso dell'eredità più preziosa, la vita eterna donata da Cristo.
4) La crocifissione e la resurrezione sembrano parodiate ove tre uomini sono crocifissi da un governatore di provincia e i loro cadaveri, come quello di Gesù, sono custoditi dai soldati perché nessuno li trafughi. Ma il terzo giorno uno è portato via e sostituito con un altro, al che Petronio deride i creduloni ammirati davanti all'improvvisa rianimazione di un defunto. Le vicinanze con i Vangeli sono impressionanti. Il romanzo contiene anche una chiara parodia del Giudizio di Salomone. e il nome di Trimalcione, durante la cui cena avvengono tre degli episodi descritti, è semitico: «tre volte re», «re per eccellenza».
Anche lo scrittore greco Caritone di Afrodisia sembra avere scritto il suo Romanzo di Calliroe poco dopo la metà del I sec.: l'ultimo suo editore, B. Reardon, come C. Thiede, data il romanzo non dopo il 62, quando lo stoico Persio lo cita alla fine della sua satira I: «Dopo pranzo ti do la Calliroe».
Afrodisia, in Caria, era vicina a zone di antica evangelizzazione, il che rende possibile una conoscenza del cristianesimo, che alcune scene del romanzo sembrano presupporre. Colpiscono quelle della crocifissione di Cherea e della morte apparente di Calliroe.
Cherea è condannato da un governatore, porta la sua croce, non si ribella né accusa nessuno, e dalla croce è poi invitato a discendere con l'identica forma verbale greca usata anche per Gesù. Il terzo giorno dalla presunta morte della giovane protagonista Calliroe, Cherea giunge alla tomba all'alba, con libagioni, ma trova le pietre rotolate via dall'ingresso e prova smarrimento (aporia), lo stesso termine usato da Luca per le pie donne al sepolcro, come pure l'incredulità di fronte al fatto paradossale è anche nei Vangeli.
La Fama, come nunzio (aggelos), vola a dare notizia; tutti accorrono ma Cherea non osa entrare prima del padre di Calliroe, come Giovanni, che nel Vangelo non entra nel sepolcro prima di Pietro; la tomba è incredibilmente vuota e, mentre alcuni parlano di trafugamento, Cherea proclama la divinizzazione e assunzione in cielo della fanciulla.
Inoltre, il riconoscimento finale di Calliroe, tornata in vita, avviene grazie alla voce, come quello di Gesù da parte della Maddalena.
Altre affinità di pensiero con il cristianesimo sono interessanti: il valore della castità, della vita, la dignità degli schiavi, etc. Petronio e Caritone alludono anche al trafugamento di cadavere, di cui erano accusati i Cristiani nei primi decenni, come attesta Mt 28. A questa accusa sembra connesso ]'Editto di Nazareth, in cui l'imperatore (Nerone) commina la morte ai profanatori di tombe, una colpa usualmente punita solo con una multa: l'editto è probabilmente rivolto contro i Cristiani, tanto più se si intende che i trasgressori sarebbero stati sottoposti «ad un processo relativo alla religione per un culto reso a un essere umano»: ciò si adatta al cristianesimo, che dal 35 era fuori legge per un senatoconsulto sotto Tiberio, che tuttavia aveva posto il veto alle accuse anticristiane, impedendo una persecuzione che scoppiò solo nel 64 per volere di Nerone e di cui Petronio era al corrente.
Il Vangelo di Marco sarebbe così databile a prima del 64, come sostiene l'antica tradizione del II sec. e come suffraga 7Q5, il probabile frammento marciano che si può collocare prima del 70 su base archeologica e agli anni 50 su base paleografica. Infatti, l'Editto sembra indicare la volontà di Nerone, con la «svolta» del 62, di colpire i Cristiani, sia in quanto adoratori di un uomo, sia in quanto presunti trafugatori di cadavere, secondo l'accusa fatta circolare dai Giudei e probabilmente riflessa in entrambi i romanzi di Petronio e di Caritone; ora, il primo è certamente databile a prima del 65, e il secondo molto probabilmente circolava in età neroniana (54-68 d.C.) I riferimenti ai Vangeli e ai Cristiani in autori dei primi anni Sessanta del I sec., o anteriormente per Caritone, contribuiscono a sostenere la datazione alta dei Vangeli: la loro stesura avvenne dunque mentre erano vivi i testimoni oculari degli eventi della vita di Gesù, che avrebbero potuto smentire eventuali falsificazioni.
I romanzi antichi, pur composti anche da autori che, come Petronio, sembrano deridere i Cristiani, parrebbero suffragare la storicità dei Vangeli. ?


Mara bar Sarapion

           Mara bar Sarapion era un filosofo stoico siriano, originario di Samosata, del I sec. d.C. Fu incarcerato dai romani e dalla prigionia scrisse una lettera al figlio Serapion. Riportata da un manoscritto del VII sec. conservato al British Museum, questa lettera risale al 73 d.C. e riporta ammonizioni ed esortazioni che Mara invia al figlio Serapion. Egli raccomanda al figlio di perseguire la sapienza nella sua vita, anche se questo comporta andare incontro a persecuzioni e calunnie, così come è accaduto in passato ad a numerosi personaggi della storia e come sta avvenendo per lui stesso, presagendo una sua possibile condanna a morte ad opera dei romani. E Mara cita Socrate, Pitagora e il “saggio Re dei Giudei” tradito dal proprio popolo e condannato a morte. Non fa il nome di Gesù, ma il saggio re dei Giudei è proprio identificabile con Cristo; non si riscontra, infatti, nessun re dei giudei che fu ucciso dagli stessi giudei, se non Gesù Cristo che fu accusato di essersi proclamato re (sulla croce fu posta la scritta “I.N.R.I.”, ovvero “Gesù Nazareno Re dei Giudei”).
            Il testo di Mara bar Serapion è il seguente:
            «Quale vantaggio trassero gli Ateniesi dall’aver ucciso Socrate, un fatto che dovettero pagare con la carestia e con la peste? O gli abitanti di Samo per aver bruciato Pitagora, visto che in un istante tutto il loro paese fu ingoiato dalla sabbia? O i Giudei per l’esecuzione del loro saggio re, visto che da quel tempo fu loro sottratto il regno?
            Giustamente infatti Dio vendicò questi tre saggi: gli Ateniesi morirono di fame, gli abitanti di Samo furono sommersi dal mare, i Giudei eliminati e cacciati dal loro regno, vivono tutti nella diaspora. Socrate non è morto, grazie a Platone; né Pitagora, grazie alla statua di Hera, né il saggio re, grazie al nuovo insegnamento che aveva impartito»
            La ‘punizione divina’ a cui allude Mara è la guerra tra giudei e romani svoltasi dal 66 al 74 d.C.  che si concluse con la distruzione del tempio e la diaspora dei giudei fuori da Israele. L’autore sembra conoscere il cristianesimo primitivo siriano, soprattutto perché in questo ambiente storico sorse il Vangelo di Matteo nel quale possiamo rilevare elementi simili a quelli della lettera di Mara, come ad esempio Mt. 2,1ss dove i saggi cercano il neonato “re dei Giudei”), oppure i racconti della passione dove Gesù entra a Gerusalemme acclamato come re, gli oltraggi che poi subì, la domanda di Pilato “Sei tu il Re dei Giudei?”  in Mt. 27,11, e la scritta sulla croce “Questi è Gesù, il re dei Giudei”; e in particolare la distruzione di Gerusalemme che nel vangelo di Matteo è vista come punizione per aver condannato a morte Gesù.
            Si rileva inoltre che ciò che di Gesù affascinò i filosofi pagani (in particolare gli stoici) fu soprattutto il suo insegnamento ,“le nuove leggi”  che il re dei Giudei diede al suo popolo, in quanto lo chiama “il saggio re”.
            Ai fini storici, il documento di Mara è importante perché il saggio re dei Giudei (Gesù) è considerato un personaggio storico così come Socrate e Pitagora.

GIUSEPPE FLAVIO

Testimonium Flavianum

Giuseppe Flavio, figlio di Mattia, nacque tra il 37 e il 38 d.C. . Fu sacerdote a Gerusalemme e all’età di 30 anni circa guidò alcune truppe in rivolta contro l’esercito romano (66 d.C). Dopo quattro anni di guerra che si concluse con la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio, Giuseppe ottenne di lavorare per i romani svolgendo il compito di storico presso Vespasiano (il futuro imperatore) a Roma. Tra il 75 e il 79 d.C. scrisse un’opera dal titolo “Guerra giudaica” , che costituì un importante riferimento per la storia di Israele in questo periodo descrivendo le tristi gesta belliche alle quali anche lui aveva partecipato.

La profezia sull’attesa del Messia
            È  anche un’opera che ci fa comprendere l’ambiente storico ebraico nel quale visse Gesù, come ad esempio l’attesa messianica che era forte in quel periodo. Infatti, al cap. 5, Giuseppe Flavio ci comunica che il vero motivo che aveva indotto gli ebrei alla guerra del 66-70 d.C. fu l’attesa del Messia così come era attestato dalle Scritture:
 «Ma quello che incitò maggiormente (gli ebrei) alla guerra fu un’ambigua profezia, ritrovata ugualmente nelle sacre Scritture, secondo cui in quel tempo “uno” proveniente dal loro paese sarebbe diventato dominatore del mondo» .
Per non fare un torto a Vespasiano e per celebrare le gesta del suo illustre tutore, applicò questa profezia proprio a Vespasiano:
«Questa (l’ambigua profezia) gli ebrei la intesero come se alludesse a un loro connazionale, e molti si sbagliarono nella sua interpretazione, mentre la profezia in realtà si riferiva al dominio di Vespasiano, acclamato imperatore in Giudea».
 In quest’opera non ci sono riferimenti diretti a Gesù, mentre lo citerà esplicitamente in una seconda opera successiva, le “Antichità giudaiche” (93-94 d.C.), che sarebbe una sorta di completamento della Guerra giudaica, in quanto ricostruisce la storia di Israele dalle origini fino allo scoppio della guerra contro i romani.
Altre sue opere successive saranno Contra Arpionem (95 d.C.) e una sua autobiografia che è  un’apologia del suo operato politico: Vita.

 Riferimento a Giovanni Battista nelle Antichità Giudaiche.
            In Antichità giudaiche, Giuseppe Flavio fa un riferimento in senso elogiativo di Giovanni Battista (cap. 18,116-119), riportando come molti giudei attribuivano la disfatta dell’esercito di Erode al fatto che egli aveva messo a morte il Battista, che quasi tutto il popolo riteneva un vero profeta di Dio.
Ad alcuni dei Giudei sembrò che l’esercito di Erode fosse stato annientato da Dio, il quale giustamente aveva vendicato l’uccisione di Giovanni soprannominato il Battista. Erode infatti mise a morte quel buon uomo che spingeva i Giudei che praticavano la virtù e osservavano la giustizia fra di loro e la pietà verso Dio a venire insieme al battesimo; così infatti sembrava a lui accettabile il battesimo, non già per il perdono di certi peccati commessi, ma per la purificazione del corpo, in quanto certamente l’anima è già purificata in anticipo per mezzo della giustizia. Ma quando si aggiunsero altre persone - infatti provarono il massimo piacere nell’ascoltare i suoi sermoni - temendo Erode la sua grandissima capacità di persuadere la gente, che non portasse a qualche sedizione - parevano infatti pronti a fare qualsiasi cosa dietro sua esortazione - ritenne molto meglio, prima che ne sorgesse qualche novità, sbarazzarsene prendendo l’iniziativa per primo, piuttosto che pentirsi dopo, messo alle strette in seguito ad un subbuglio. Ed egli per questo sospetto di Erode fu mandato in catene alla già citata fortezza di Macheronte, e colà fu ucciso”. (Ant. XVIII, 116-119).
            È da notare il parallelo di questo passo dei Giuseppe Flavio con i molti testi dei Vangeli su Giovanni Battista e sulla sua morte.

Riferimenti a Gesù nelle Antichità Giudaiche.
             In due altri passi Giuseppe Flavio fa esplicita menzione di Gesù. Vediamo la prima che troviamo al cap. 20, 199-203.
«Il più giovane Anano tuttavia, del quale ho menzionato più sopra la nomina a sommo sacerdote… apparteneva alla setta dei sadducei, i quali, come già s’è notato in antecedenza, nel giudizio erano più duri e spietati di tutti gli altri Giudei. Per gratificare questa sua durezza di cuore, Anano ritenne di aver trovato già ora, che Festo era morto e Albino non era ancora arrivato (si tratta di due procuratori romani: Porcio Festo governò dal 60 al 62 d.C. e Luccio Albino dal 62 al 64 d.C.), un’occasione propizia. Convocò perciò il sinedrio per il procedimento giudiziario e gli pose dinanzi il fratello di Gesù, che è detto il Cristo, di nome Giacomo, nonché alcuni altri, che egli accusò di trasgressione della legge, e li fece lapidare. Ciò però amareggiò anche i più zelanti osservanti della legge, i quali perciò inviarono in segreto ambasciatori al re (Agrippa II,) con la richiesta di invitare Anano – per iscritto – a non permettersi mai più, in futuro, di combinare azioni simili… Alcuni di loro andarono persino incontro ad Albino che era in cammino da Alessandria e lo informarono che Anano non aveva alcun diritto di convocare il sinedrio per procedimenti giudiziari, senza la sua approvazione… Agrippa peraltro, in seguito a ciò, già tre mesi dopo che aveva assunto la carica lo depose… »
            Questo passo è ritenuto autentico dai critici letterari, soprattutto perché Giuseppe cita Gesù solo per precisare l’identità di Giacomo, così come è solito fare lo storico anche con altri personaggi. L’espressione “detto il Cristo” è specificata da Giuseppe per distinguere questo Gesù da altri personaggi con lo stesso nome (>riferimento Guerra Giudaica 6,300-306 pag. 574 Merz), e inoltre è un’espressione tipicamente ebraica e non cristiana. Giuseppe sembra inoltre mostrare stima verso Giacomo che era ritenuto Giusto anche dai giudei, attestando come il sommo sacerdote Anano fu spodestato da Agrippa II per aver condannato a morte Giacomo, il “fratello di Gesù”.


Il «Testimonium Flavianum » nelle Antichità Giudaiche

            Ma il passo più importante su Gesù di Nazareth l’abbiamo nel cosiddetto “Testimonium Flavianum” (la testimonianza  flaviana)  al cap. 18,63ss.
            Questo testo è stato oggetto di discussione negli ultimi decenni, per il fatto che si ipotizza che in realtà il passo è stato interpolato (cioè, vi sono state aggiunte delle espressioni) ad opera di un cristiano dopo la redazione originaria di Giuseppe Flavio. Oggi, sussistono 3 posizioni sull’autenticità del Testimonium Flavianum:
1)      il testo è originale e autentico così come ci è stato tramandato da più fonti
2)      il testo è stato interpolato successivamente da un autore cristiano
3)      il testo è stato rielaborato successivamente da un autore cristiano partendo da un racconto originario di Giuseppe Flavio.

            Vedremo di seguito queste 3 ipotesi illustrando quali siano gli elementi a favore per ogni posizione, anche se dobbiamo subito dire che tutti gli studiosi affermano all’unanimità che certamente il testo cita Gesù di Nazareth come personaggio storico, e questo a noi basterebbe ai fini dello studio che stiamo facendo, ovvero quello di provare come Gesù sia effettivamente esistito.        
            Infatti, nella peggiore delle ipotesi, Giuseppe Flavio attesta di sicuro le seguenti notizie storiche su Gesù: egli insegnò, fu seguito da molti, venne crocifisso, i credenti in lui continuano ad esserci anche dopo la sua morte.
            Ma oltre alle 3 posizioni degli storici di cui si diceva prima, vedremo come certi studiosi hanno ricostruito il testo in una forma originaria avversa a Gesù e altri in una forma originaria neutrale nei confronti di Gesù.
            (Nella riflessione su questo testo seguiremo in linee generali il manuale Theissen – Merz, Il Gesù storico, Queriniana, Brescia 1999. )
            Infine, vedremo come una importantissima scoperta degli ultimi decenni sembra aver sciolto definitivamente i nodi sull’autenticità del passo in questione.

            Intanto vediamo il testo così come è presente in tutti i manoscritti antichi del Testimonium Flavianum, così come ci sono pervenuti.
            «Verso questo tempo visse Gesù, uomo saggio, ammesso che lo si possa chiamare uomo. Egli infatti compiva opere straordinarie, ammaestrava gli uomini che con piacere accolgono la verità, e convinse molti Giudei e Greci.
            Egli era il Cristo. E dopo che Pilato, dietro accusa dei maggiori responsabili del nostro popolo lo condannò alla croce, non vennero meno coloro che fin dall’inizio lo amarono. Infatti apparve loro il terzo giorno, di nuovo vivo, avendo i divini profeti detto queste cose su di lui e moltissime altre meraviglie. E ancor fino al giorno d’oggi continua a esistere la tribù dei cristiani che da lui prende il nome.»
            
            L’ipotesi di autenticità.      
            Sono pochi i sostenitori di questa ipotesi, anche se si tratta di storici di grande importanza come von Ranke e von Harnack. Tranne la parte «apparve loro il terzo giorno, di nuovo vivo, avendo i divini profeti detto queste cose su di lui e altre meraviglie» che sembra un’aggiunta successiva di un autore cristiano, il Testimonium Flavianum è sostanzialmente autentico e quindi avrebbe la seguente forma :

            «Verso questo tempo visse Gesù, uomo saggio, ammesso che lo si possa chiamare uomo. Egli infatti compiva opere straordinarie, ammaestrava gli uomini che con piacere accolgono la verità, e convinse molti Giudei e Greci.  Egli era il Cristo. E dopo che Pilato, dietro accusa dei maggiori responsabili del nostro popolo lo condannò alla croce, non vennero meno coloro che fin dall’inizio lo amarono. E ancor fino al giorno d’oggi continua a esistere la tribù dei cristiani che da lui prende il nome.»
            A favore di questa ipotesi di autenticità ci sono, in effetti, molte ragioni tra le quali riportiamo le seguenti:
1)      Le espressioni « uomo saggio » e « opere straordinarie » sono tipiche di Flavio Giuseppe e difficilmente sarebbero attribuibili ad un cristiano
2)      Anche « con piacere accolgono la verità » è tipica di Flavio Giuseppe, mentre non la userebbe un cristiano, in quanto piacere ha un’accezione negativa nel cristianesimo.
3)      L’affermazione « convinse molti Giudei e Greci» sembra rispecchiare la realtà proprio di Roma dove viveva Flavio Giuseppe e dove molti giudei e pagani avevano abbracciato la fede in Cristo; mentre non è riconducibile a fonti cristiane. 
4)      il testo sembra porre l’accento soprattutto sull’esecuzione ad opera di Pilato tipica di chi conosce le condizioni giuridiche della Giudea; mentre un cristiano avrebbe dato la colpa della crocifissione di Gesù soprattutto ai giudei e non al procuratore romano.
5)      Il fatto che i cristiani vengano designati come tribù dimostra il tono dispregiativo che un cristiano non avrebbe mai usato, mentre è perfettamente attribuibile a un giudeo come Flavio Giuseppe.

L’ipotesi dell’interpolazione.
            Gli studiosi che sostengono che il Testimonium Flavianum  abbia subito delle aggiunte, portano come prova i seguenti punti:
1)      Il periodo di governo di Ponzio Pilato è presentato da Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche sempre come una successione di ribellioni, mentre il termine stesso “ribellione” non appare nel testo in oggetto;
2)      Il testo non è citato da nessun padre della Chiesa in senso apologetico nei secoli II e III, soprattutto perché non veniva detto, nella redazione originaria, che Gesù « era il Cristo » , ma questa espressione è stata aggiunta in seguito.
3)      Le 3 espressioni tipiche di un cristiano e non di un ebreo come lo era Giuseppe Flavio, e quindi frutto di un interpolazione posteriore, sono:
      «ammesso che lo si possa chiamare uomo» , che tradisce una fede nella divinità di Cristo da parte di chi scrive (cosa che non poteva essere per Giuseppe Flavio);
      «questi era il Cristo», anche questa espressione è chiaramente tipica di chi crede che Gesù è il Cristo, cioè il Messia;
      « apparve loro il terzo giorno, di nuovo vivo, avendo i divini profeti detto queste cose su di lui e altre meraviglie», anche questa è un’affermazione  di un cristiano.
      Mi permetto, però, di obiettare una cosa a queste ragioni sulla non autenticità. Se probabilmente non vi era la frase «questi era il Cristo», credo che si può pensare che la forma originaria di Giuseppe Flavio poteva essere:  «Questi era detto il Cristo» oppure «Questi era creduto il Cristo dai suoi discepoli», e questo perché, come si può vedere, il Testimonium Flavianum si conclude con la frase «continua a esistere la tribù dei cristiani che da lui prende il nome»  (che da tutti gli studiosi è considerata autentica); inoltre anche nel passo di Antichità Giudaiche cap. 20, 199-203 Flavio Giuseppe dice di Gesù «che é detto il Cristo»; e inoltre non credo che lo storico ebreo abbia avuto difficoltà a capire che dal momento che i suoi seguaci erano chiamati cristiani, egli sicuramente «era detto il Cristo».

Ipotesi della rielaborazione
È un’ipotesi che cerca di trovare una via di mezzo tra l’interpolazione e l’autenticità del Testamentum, sostenuta soprattutto da J.P. Meier alla luce anche di alcune scoperte che si sono fatte recentemente. Secondo questa posizione, il Testamentum che ci è stato tramandato è il risultato di una rielaborazione fatta a partire dal racconto originario di Giuseppe che ha apportato poche modifiche. Secondo questo studioso, il testo originale uscito dalla penna dello storico ebreo doveva essere il seguente.
«In quel tempo comparve Gesù, un uomo saggio. Si diceva che compisse delle opere straordinarie, insegnava alla gente che con piacere ricevono la verità:  e attirò a sé  molti  discepoli sia fra Giudei che fra gente di origine Greca. E quando Pilato, a causa di un accusa  fatta dai maggiori responsabili del nostro popolo, lo ha condannò alla croce, coloro che lo amarono fin dall’inizio non cessarono di farlo e fino ad oggi la tribù dei cristiani (che da lui prende il nome) continua ad esistere»

Una recente scoperta getta luce sul testo originale del Testamentum Flavium

      Nel 1972 Shlomo Pinès, (1908 – 1990), professore  all’Università di Gerusalemme, sostenne che il Testamentum Flavianum è sostanzialmente autentico proprio nella versione in cui l’abbiamo conosciuto dalle fonti antiche,  e che ci sono state soltanto delle piccole variazioni.             Pinès si basa su un testo in arabo del Testamentum che si ritrova nella Kitab Al-Unwan  (Storia universale), un’opera di Agapio di Ierapoli (Siria) del X sec., vescovo e storico cristiano, che  riporta il passo delle Antichità Giudaiche nella seguente forma:

Afferma l’ebreo Giuseppe, che racconta nei trattati che ha scritto sul governo dei Giudei:
In questo tempo, viveva un uomo saggio, che si chiamava Gesù. Egli aveva una condotta irreprensibile, ed era conosciuto come un uomo virtuoso. E molti fra i Giudei e le altre Nazioni divennero suoi discepoli. Pilato lo condannò a essere crocifisso e a morte. Quelli che divennero suoi discepoli non cessarono di seguire i suoi insegnamento. Essi raccontarono che egli era apparso loro il terzo giorno dopo la sua crocifissione e che egli era vivo. A questo proposito, egli forse era il Messia di cui i profeti avevano raccontato le meraviglie
            Questo testo sembra aver messo tutti d’accordo circa la forma originaria, in quanto, sebbene riportato da un vescovo cristiano, non appare modificato o rielaborato secondo una prospettiva cristiana, ma può benissimo essere stato scritto dallo stesso Flavio Giuseppe, o comunque, se non è proprio la versione originale, almeno appare molto vicina ad essa.
            Se il vescovo lo avesse modificato non avrebbe sminuito la figura di Gesù con l’espressione del tipo “egli forse era il Messia”. In questa versione appare chiaro come Giuseppe Flavio riporta le qualità di Gesù non come sue affermazioni, ma come veniva definito e riportato da altri (i discepoli di Gesù). Attribuisce la resurrezione di Gesù non come a una propria fede, ma a ciò che raccontavano, appunto, i suoi discepoli.

 Conclusione su Giuseppe Flavio.
In breve, per concludere,  come abbiamo precedentemente scritto, quello che a noi interessa non è tanto se Giuseppe Flavio credeva o meno alla messianicità o alla divinità di Gesù, e se egli era divenuto cristiano o meno, ma ai fini di dimostrare la storicità di Gesù constatiamo che certamente Giuseppe parla di Gesù come un personaggio storico realmente esistito così come Pilato, Giacomo, Giovanni Battista.

PLINIO IL GIOVANE
 
Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto Plinio il Giovane, (61-113 d.C.), nipote di Plinio il Vecchio (zio materno) nel 111 fu nominato dall’imperatore Traiano legatus in Bitinia. L’opera nella quale parla di Cristo è la raccolta di 10 Epistole. È nella decima Epistola (X,96), inviata all’imperatore Traiano, che Plinio chiede direttive su come comportarsi con i Cristiani. Scrupoloso e devoto com’era verso Traiano, gli chiese consigli sul da farsi e gli sottopose una serie di questioni, dinanzi alle quali il principe dovette forse anche provare un certo fastidio.
 Ecco il testo della Epistola X che Plinio scrive all’imperatore:
             “Ho per massima, o signore, di riferirti le cose tutte delle quali sono dubbioso. Poiché chi può meglio guidarmi nel dubbio o illuminare la mia ignoranza? Io non ho mai preso parte a processi contro i Cristiani, e perciò ignoro quale colpa e sin dove si soglia punire o inquisire.        
            Sono rimasto non poco esitante se bisognasse avere riguardo dell’età degli accusati, o nessuna differenza bisognasse fare tra i giovinetti e adulti; se si debba dare il perdono alla ritrattazione, o se, a chi è stato sicuramente Cristiano, nulla giovi l’aver cessato di essere Cristiano; se meriti punizione la sola professione di fede cristiana, anche se manchino i delitti oppure i delitti inerenti a quella professione. Intanto così mi sono regolato con quelli, che mi venivano denunziati come Cristiani.
             Ai confessi feci due o tre volte la stessa domanda, sotto la minaccia della pena capitale: e ho mandato a morte gli ostinati. Poiché io non dubitavo, quale che fosse quel che confessavano, doversi certo punire una caparbietà ed una ostinazione inflessibile. Altri folli, poiché erano cittadini romani, li ho annotati perché siano rinviati a Roma. Quindi, come suol succedere, per il fatto stesso che si era iniziato un procedimento giudiziario, cresciute le accuse, occorsero parecchi altri casi.
            Mi fu messa innanzi una denuncia anonima, contenente molti nomi. Quelli che negavano di essere o di essere stati Cristiani, dopo che sulla formula da me pronunciata invocarono gli dèi e tributarono incenso e vino alla tua immagine che per tal prova avevo fatto recare coi simulacri dei nomi, ed inoltre maledissero Cristo, a nessuno dei quali atti si dice possano essere costretti quelli che sono veramente Cristiani, mi parve di doverli assolvere. Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere Cristiani, e poi lo negarono; lo erano, sì, stati, dicevano, ma non lo erano più, chi da tre, chi da molti, e chi finanche da venti anni. Anche questi venerarono la tua immagine e i simulacri dei numi, e maledissero Cristo
             Affermavano poi che la loro colpa o il loro errore consisteva nella consuetudine di adunarsi in un giorno stabilito prima del levarsi del sole, e cantare tra loro a cori alternati un canto in onore di Cristo, come a un dio, e di obbligarsi con giuramento non a compiere male azioni, ma a non rubare, a non ammazzare, a non commettere adulteri, a non tradire la parola data, a non rifiutare se richiesti di restituire il deposito; compiuto questo rito, era loro costume di sciogliersi, poi di adunarsi ancora ad un banchetto, comune ed innocuo, e che anche ciò avevano smesso di fare dopo il mio editto, con il quale, secondo i tuoi ordini, avevo vietato i sodalizi. Per cui mi parve ben necessario di accertarmi della verità interrogando due schiave addette al culto cristiano, anche mediante la tortura. Ma trovai solo stramba e smodata superstizione; e, perciò, sospesa l’inchiesta, decisi di consultarti.
            Mi parve degna di interpellanza la cosa, soprattutto pel gran numero di accusati. Chè in ogni età, in ogni classe, ed anche in ambo i sessi vi sono molti citati, o che possono essere citati in giudizio. Non solo per le città, ma per le borgate e le campagne si è diffuso il contagio di codesta superstizione; la quale pare si possa fermare e correggere. E certo si vede bene che hanno ricominciato ad essere frequentati i templi già quasi deserti, a essere riprese le solennità sacre da gran tempo interrotte, e a vendersi il pasto delle vittime, che non trovava quasi più compratori. Dal che è facile prevedere quanta gente si può far ravvedere, se è dato campo al pentimento”

 Ed ecco la risposta di Traiano: brevi ma precise istruzioni, che lasciano trasparire la chiara volontà del principe e la preoccupazione per la dignità del suo regno. Non è da escludere un atteggiamento, per dir così, sbrigativo e liquidatorio di Traiano nei confronti della meticolosa scrupolosità di Plinio:
 “Traiano saluta Plinio. Ti sei comportato come dovevi, o mio Secondo, nell’istituire i processi di coloro che ti furono denunziati come Cristiani. Non è possibile infatti stabilire una norma generale e, per così dire, con un principio fisso. Non è necessario andarli a cercare; quando vengano denunziati e confessino, siano puniti; resti fermo tuttavia che chi neghi d’esser cristiano e lo provi con i fatti, adorando cioè i nostri dèi, ottenga per tal abiura il perdono, anche se per l’addietro fosse sospettato. Quanto poi alle denunce anonime, esse non devono avere alcun peso per nessuna accusa. Giacchè ciò è di pessimo esempio e d indegno dei nostri tempi.
TACITO
          
P. Cornelio Tacito fu uno dei più grandi storici della Roma antica. Scrisse infatti due opere a carattere storico:  Historiae (105-110 d.C.) e Annales (116-117 d.C.). In quest’ultima, tratta del periodo che va da Augusto (14 d.C.) fino a Nerone (68 d.C.) Nell’analizzare l’operato dell’imperatore Nerone fu molto critico verso di lui, soprattutto per quanto riguarda l’ultimo periodo del suo regno. Parlando della sua folle condotta come imperatore spietato, Tacito parla anche della persecuzione verso i cristiani (Annales 15,44,2-5).      
            Tra le altre cose, Tacito non esita ad attribuire a Nerone la colpa di aver incendiato Roma il 16 luglio del 64 d.C. , dicendo espressamente che fu ordinato di dare fuoco alla città (Annales 15,38). E qui che Tacito parla dei Cristiani e di Cristo. Infatti, Nerone incolpò proprio la ‘setta’ dei Cristiani per fugare le voci che invece lo accusavo come il vero colpevole dell’incendio dell’Urbe.
            Dicono gli Annales  (15,44) di Tacito che Nerone
            “si inventò dei colpevoli e colpì con supplizi raffinatissimi coloro che il popolo, odiandoli per i loro delitti, chiamavano Crestiani. Prendevano il loro nome da Cristo, che sotto l’imperatore Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente soffocata, questa rovinosa superstizione si diffondeva di nuovo, non solo per la Giudea, origine di quel flagello, ma anche per Roma, dove da ogni parte confluiscono e trovano seguaci ogni sorta di atrocità e cose vergognose.
            Perciò, inizialmente vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una grande moltitudine, non tanto per l’accusa dell'incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo”.
            Come appare chiaro nella prima parte di questo brano (in grassetto) Tacito conferma alcune informazioni precise sulla vita di Gesù e sui Cristiani. Infatti, Tacito è al corrente che Cristo fu giustiziato sotto Ponzio Pilato, al tempo dell’imperatore Tiberio e che il movimento dei Cristiani, originatosi in Giudea, prende nome proprio da Cristo.
            Riferendosi a Cristo, si vede come Tacito non riporta espressioni quali “si dice, come si sa”, ma evidentemente attinge da fonti storiche ben precise.


SVETONIO

Caio Svetonio Tranquillo (70-126 d.C.), proveniente dall’ordine equestre, ebbe come mecenate Plinio il Giovane che gli diede accesso a tutti gli archivi e ricoprì alte cariche ufficiali. Scrisse le biografie degli imperatori (De Vita Caesarum), in otto volumi, pubblicate tra gli anni 117 e 122.
             Il primo riferimento a Cristo che abbiamo nelle opere di Svetonio è la seguente tratta dalla Vita di Claudio (23,4) , a proposito dell’editto di Claudio sui Giudei di Roma:
            “Espulse da Roma i Giudei che per istigazione di Cresto erano continua causa di disordine”.
            Questa espulsione avvenne probabilmente nel 49 d.C. ed è confermata perfettamente anche dagli Atti degli Apostoli (18,2):
            “Qui trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei.
            E’ da notare come Svetonio usa l’appellativo ‘Cresto’ intendendo il termine greco ‘Christòs’ (=Messia); infatti, anche Tacito chiama i seguaci di Gesù con il nome di cristiani (vedi anche Tertulliano, Apolog., 3).
            Svetonio parlerà ancora dei cristiani nella Vita di Nerone scrivendo che l’imperatore  “Sottopose a supplizi i Cristiani, una razza di uomini di una superstizione nuova e malefica”  (16,2)


ADRIANO
Publio Adriano fu imperatore dal 117 al 138 d.C. Dopo Tiberio, possiamo dire che fu il primo imperatore clemente nei confronti dei cristiani, come si può vedere da una lettera di risposta a Minucio Fundano, proconsole d'Asia, e che ci è pervenuta in greco sia attraverso Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica, IV, 9) che tramite Giustino (I Apol. 68).
           In questa lettera, Adriano stabilisce che la sola prova di appartenere al gruppo dei cristiani non costituiva più, d'ora innanzi, elemento di reato per cui eseguire una condanna. Inoltre, l'imperatore decideva che dovevano essere gli accusatori dei cristiani a provare le presunte accuse contro di essi, e se non riuscivano a provare la fondatezza delle proprie accuse potevano incorrere in gravissime pene:
"Se pertanto i provinciali sono in grado di sostenere chiaramente questa petizione contro i Cristiani, in modo che possano anche replicare in tribunale, ricorrano solo a questa procedura, e non ad opinioni o clamori. E’ infatti assai più opportuno che tu istituisca un processo, se qualcuno vuole formalizzare un’accusa. Allora, se qualcuno li accusa e dimostra che essi stanno agendo contro le leggi, decidi secondo la gravità del reato; ma, per Ercole, se qualcuno sporge denuncia per calunnia, stabiliscine la gravità e abbi cura di punirlo".
              C'è anche da segnalare che, secondo la biografia di Alessandro Severo (S.H.A., Sev. Alex., 29,2), Adriano avrebbe pensato alla collocazione di una statua di Cristo nel Pantheon di Roma.
         In una successiva lettera del 133 d.C. al console Serviano sono citati Cristo e i Cristiani.


Trifone giudeo e Giustino
            Intorno al 150 d.C., il palestinese martire cristiano Giustino, scrive un'opera dal titolo Dialogo con il giudeo Trifone,  accusando i dottori giudei di diffondere dovunque calunnie e bestemmie su Gesù. In questo suo scritto egli sostiene un dialogo con l'ebreo Trifone, volendo convincere l'interlocutore sull'importanza della fede cristiana e di come essa sia la prosecuzione della religione ebraica e il suo completamento.
Nel Dialogo è riportato il seguente detto su Gesù che circolava ai  tempi di Giustino negli ambienti giudei, e che dimostra come gli ebrei sapevano dell'esistenza di Gesù, della sua crocifissione, e di come i suoi discepoli "avrebbero costruito" la storia della risurrezione:
"E’ sorta un’eresia senza Dio e senza Legge da un certo Gesù, impostore Galileo; dopo che noi lo avevamo crocifisso,  i suoi discepoli l'avevano sottratto di notte dal sepolcro dove era stato deposto una volta schiodato dalla croce e ora andavano ingannando gli uomini affermando che era ridestato dai morti ed era salito al cielo»” (Dialogo con Trifone, 108,1) 


Celso
 
Celso, filosofo del II secolo d.C. , scrisse un’opera contro i Cristiani dal titolo  Discorso veritiero. Non ci è pervenuta quest’opera, ma sappiamo della sua esistenza e conosciamo alcune sue parti grazie al testo di Origene Contra Celsum, scritto intorno nel 248 d.C., dove lo scrittore cristiano confuta le argomentazioni di Celso.
Celso riporta i seguenti giudizi che attinse dai pregiudizi giudei contro i cristiani e contro Gesù Cristo.
“Essendo la sua famiglia povera, Gesù fu mandato in Egitto a cercare lavoro; e quando arrivò lì, egli acquisì certi poteri magici che gli egizi si vantavano di possedere; quindi ritornato fiero per i poteri che acquisì, per tali poteri si proclamò Dio da se stesso. “  (Contra Celsum, I, 32)
“Gesù si circondò di 10 o 11 uomini scellerati, i peggiori dei pubblicani e dei pescatori; e con questi se ne andava di qua e di là, in modo vergognoso e meschinamente raccoglieva provviste” (Contra Celsum, I,62)
Riportiamo il commento all’opera di Celso che ne fa Giuseppe Ricciotti nella sua Vita di Gesù Cristo (par. 195).
Celso, poco prima del 180, pubblicò il suo Discorso veritiero, con cui assale in minor parte Gesù e in maggior parte i cristiani. Egli tiene a far rilevare che in precedenza si è informato bene del suo argo­mento, giacché ripete fiduciosamente rivolto ai cristiani: “Io so tutto (sul conto vostro)!”; ha infatti letto i vangeli, e li cita nel suo discorso attribuendoli regolarmente ai discepoli di Gesù. Ciò nonostante egli accetta dai vangeli solo i fatti che corrispondono alle sue mire polemiche, quali le debolezze della natura umana di Gesù, il lamento della sua agonia, la sua morte in croce, ecc., che sarebbero a parer suo tutte cose indecorose per un Dio: invece sostituisce gli altri dati biografici con le sconce calunnie anticristiane messe in giro già allora dai Giudei; spesso poi altera l'indole dei fatti, talvol­ta deforma anche le parole delle citazioni, e in genere sparge a pie­ne mani il ridicolo sull'odiato argomento con un metodo che anticipa sotto vari aspetti quello di Voltaire. Ma queste ragioni storiche sono, in realtà, solo sussidiarie, e il vero argomento fondamentale è filosofico: Celso, che mira a rinsaldare l'unità politica dell'Impero romano di fronte alla minaccia dei Barbari, giudica indiscutibilmente assurda l'idea di un Dio fattosi uomo, e quindi erronea la storia evangelica; perciò i cristiani, se vorranno essere ragionevoli, dovranno abbandonare tali assurdità e ritornare ai tradizionali dei dell'Impero. Porfirio, il discepolo del neoplatonico Plotino, è molto più sodo di Celso. Nei suoi 15 libri Contro i cristiani, apparsi sullo scorcio del secolo III, egli conserva un tono più moderato (a quanto possiamo raccogliere dai frammenti), e si dà tutto a rilevare le contraddizioni o inverosimiglianze storiche ch'egli trova nei vangeli; ma anche qui, come in Celso, l'obiezione più forte è sollevata in nome dei principii filosofici: “Può patire un Dio? Può risuscitare un morto?”. La risposta negativa che evidentemente bisogna dare a tali domande, se­condo Porfirio, decide anche di tutta la questione; qualunque inter­pretazione dei racconti evangelici sarà preferibile a quella che am­metta il patimento di un Dio o la resurrezione di un morto. Quando l'impero diventò ufficialmente cristiano, non solo non com­parvero più nuovi scritti contro l'autorità storica dei vangeli, ma disparvero anche quelli già pubblicati: ad esempio, i libri di Por­fino Contro i cristiani. furono ufficialmente proscritti per decreto della corte di Bisanzio nel 448. Seguitarono tuttavia a circolare, scritte in ebraico o trasmesse oralmente, le sconce calunnie giudaiche di cui già si era servito Celso, e che più tardi confluirono nel libello Toledòth Jeshua.
Il silenzio delle fonti storiche non cristiane
Tratto da: Theissen-Mertz, Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 1999, pg. 123-124
Obiezione: Le fonti non cristiane tacciono in ampia misura su Gesù. Anche là dove potremmo aspettarci informazioni su d lui, di fatto non ne troviamo
     Filone di Alessandria (+ 42/50 d.C.), contemporaneo di Gesù, parla di Pilato: «A questo riguardo si potrebbe parlare della sua corruttibiità, della sua violenza, dei suoi furti, maltrattamenti, offese, delle esecuzioni capitali da lui decise senza processo, nonché della sua ferocia incessante e insopportabile» (LegGai 302). Su Gesù, non una parola.
      Giusto di Tiberiade, contemporaneo di Flavio Giuseppe, scrisse una Cronaca dei re giudei e una Storia della guerra giudaica. Secondo la notizia fornitaci da Fozio di Costantinopoli (820-886 d.C. circa), che conosceva l'opera oggi andata perduta, nemmeno questo autore menzionava Gesù (Photius cod.13).
 
CONTROARGOMENTI: Le fonti antiche tacciono su molti personaggi sulla cui storicità non si nutrono dubbi
Giovanni il Battista è menzionato da Flavio Giuseppe (Ant. 18,116-119) e dai testi mandei, ma non da Filone, da Paolo e dagli scritti rabbinici.
Paolo di Tarso è attestato da lettere autentiche, ma di lui non fanno menzione né Flavio Giuseppe, né altri autori non cristiani.
Il Maestro di Giustizia è noto soltanto dagli scritti di Qumran, mentre negli antichi resoconti tramandatici sugli Esseni mancano notizie su di lui (Flavio Giuseppe, Filone, Plinio il Vecchio).
Rabbi Hillel, il fondatore della famosa tradizione scolastica degli Hilleliti, non è mai menzionato da Flavio Giuseppe, benchè questi si dica seguace del fariseismo.
Bar Kochba, il capo messianico della rivolta giudaica contro i Romani negli anni 132-135 d.C., nel racconto di Dione Cassio su questa stessa rivolta è passato del tutto sotto silenzio.
 
       Le menzioni di Gesù presso gli storici antichi dissipano ogni dubbio sulla sua storicità.
       Le informazioni su Gesù in scrittori ebrei e pagani - in particolare quelle che troviamo in Flavio Giuseppe, nella lettera di Sarapion e in Tacito - , mostrano che nell'antichità la storicità di Gesù era data per scontata, e a ragione, come si evince da due osservazioni sulel fonti menzionate:
> le informazioni su Gesù sono tra loro indipendenti. Tre scrittori appartenenti ad ambienti diversi elaborano, indipendentemente, l'uno dall'altro, notizie su Gesù: un ebreo aristocratico che è storico di professione, un filosofo siriano, un uomo di Stato e storiografo romano;
> tutti e tre sono al corrente dell'esecuzione di Gesù, ma in maniera diversa: Tacito dichiara responsabile di essa Ponzio Pilato, Mara bar Sarapion il popolo giudaico. il Testimonium Flavianum (verosimilmente) l'aristocrazia giudaica in collaborazione con il governatore romano. L'esecuzione era scandalosa per qualsivoglia forma di venerazione di Gesù. In quanto skàndalon (cfr. 1 Cor 1,18ss), non poteva certo essere inventata.