domenica 3 luglio 2011

Gesù tra teologia e storia

1. Introduzione
La domanda del titolo vuole indicare quello che è probabilmente il problema più serio, e per i credenti più inquietante, sollevato dalla ricerca attuale sul Gesù storico. Questa ricerca infatti non ha soltanto riaffermato con forza la distinzione tra il Gesù storico e il Cristo dei vangeli ma ha anche posto il problema della continuità tra il Gesù storico e il Cristo dei vangeli. Il Gesù storico è per essa il Gesù ebreo, che parla e agisce interamente dentro le tradizioni e le istituzioni del suo popolo; e che dai confini del suo popolo non ha mai pensato perciò di uscire. Il Cristo dei vangeli è invece il Gesù cristiano, che entra in conflitto radicale con le tradizioni e le istituzioni del suo popolo e si allontana perciò da esse fondando una nuova religione. Lo slogan, estremamente efficace, della ricerca attuale sul Gesù storico è quello formulato agli inizi del secolo scorso dal grande storico liberale del giudaismo J. Wellhausen: «Gesù non era un cristiano, ma un giudeo». C’è un fossato insomma tra il Gesù della storia e il Cristo dei vangeli. E l’esistenza di questo fossato pone inevitabilmente il problema se sia veramente legittimo il riferimento a Gesù del cristianesimo.
Anche se è vero che dietro questa netta distinzione c’è spesso una (consapevole o inconsapevole) scelta ideologica, che mira proprio a rompere ogni rapporto tra Gesù e il cristianesimo, a questo problema, che è storico prima ancora che teologico, della continuità, o eventualmente della frattura, tra Gesù e i vangeli non si può rispondere semplicemente, come fa J. Ratzinger nel suo Gesù di Nazaret, con la riaffermazione che «il vero Gesù storico» è alla fine il Cristo dei vangeli. Questo è certamente vero per la fede cristiana, che riconosce nei vangeli (canonici) l’interpretazione autentica, e perciò normativa, della figura di Gesù. Ma non è vero per lo storico, credente o non credente che egli sia. Per lo storico i vangeli (canonici) forniscono un’immagine (di fede) della figura di Gesù che non coincide con quella che egli può ricostruire con i soli mezzi della scienza storica. E non coincide neppure interamente con quella che forniscono i più antichi vangeli apocrifi. Per lui si pone perciò necessariamente il compito di una ricostruzione della figura di Gesù che non si limiti all’immagine che ne danno i vangeli.
Il problema storico veramente decisivo è in realtà quello del riconoscimento del punto di vista particolare dal quale si pongono, nella loro interpretazione di Gesù, i vangeli canonici: della natura quindi (e della legittimità) dell’operazione che ognuno di essi ha compiuto nella sua comprensione della figura di Gesù. È evidente infatti che essi non sono semplicemente una storia (neutrale) di Gesù, bensì appunto un’interpretazione (di fede) della sua persona. E il fatto che i vangeli canonici siano quattro, e offrano quindi una pluralità di interpretazioni, se costituisce una ricchezza sul piano teologico, come ha sempre affermato la tradizione cristiana, non può non rendere invece più complesso il problema della ricerca sul Gesù storico. Indico quindi rapidissimamente due aspetti essenziali di questo problema: la natura dei vangeli canonici e l’esistenza del canone neotestamentario.

2. La nascita del genere letterario del vangelo
La ragione ultima della nascita del genere letterario del vangelo, un genere letterario sostanzialmente nuovo (anche se oggi si ripropone il problema della sua affinità con quello del bios greco-romano), va ricercata probabilmente proprio nell’esigenza, divenuta presto ineludibile per i credenti in Cristo, di spiegare il rapporto (e affermare quindi l’identità) del Cristo della propria fede con Gesù di Nazaret. I vangeli canonici sono stati scritti infatti negli anni che vanno dal 70 al 100 d.C. (il vangelo di Marco, che costituisce il primo esempio di questo nuovo genere letterario, è stato scritto intorno all’anno 70, il vangelo di Giovanni, che è l’ultimo dei quattro, poco prima del 100), dunque tra quaranta e settant’anni dopo la morte di Gesù (avvenuta quasi certamente nel 30), quando la vicenda storica di Gesù era ormai abbastanza lontana nel tempo e l’interpretazione teologica del Cristo (la cristologia) si era già molto sviluppata. C’era già evidentemente per i credenti il pericolo che la figura di Gesù svanisse nel mito.

2.1. Il vangelo di Marco
Il problema di Marco, primo autore di un vangelo, era perciò spiegare quale rapporto ci fosse tra il Cristo oggetto della fede della sua comunità e il Gesù di Nazaret della storia. E per far questo Marco ha scelto appunto di proclamare la «buona novella di Gesù Cristo» (Mc 1,1) narrandone la storia. L’operazione era difficile, perché Marco aveva dinanzi a sé non soltanto la tradizione orale, ma anche già del materiale scritto: quasi certamente una breve storia della passione e alcune raccolte tematiche (controversie di Gesù con i farisei, racconti di esorcismi e guarigioni), un materiale a cui non era facile trovare un filo. Questo filo Marco lo ha trovato nell’idea del segreto messianico, o forse, possiamo dire oggi più esattamente, nell’idea di uno sviluppo progressivo nell’esplicitazione e nella comprensione della messianità di Gesù. Egli sapeva che la vita di Gesù non aveva avuto un carattere chiaramente messianico. Soltanto dopo la risurrezione i discepoli avevano compreso pienamente che Gesù era il Messia. Ha costruito perciò la sua storia di Gesù intorno alla idea del progressivo disvelarsi di una messianità di Gesù in un primo tempo segreta. Marco non ha inventato questa idea, e nemmeno la tradizione precedente a lui l’ha semplicemente inventata, come riteneva W. Wrede, lo studioso che per primo ha insistito con forza sull’importanza di questa idea nel vangelo di Marco. E il segreto messianico non è soltanto una costruzione teologica. I discepoli veramente non avevano compreso l’identità più profonda di Gesù. Essa era troppo distante dalle convinzioni messianiche da loro condivise con la maggioranza del popolo giudaico. Marco però ha cercato di dare a questa idea una coerenza teologica. Per lui Gesù è il Messia fin dall’evento del battesimo nel Giordano. Ma rivela progressivamente la sua identità messianica, educando i discepoli a una concezione più spirituale del Messia e preparandoli lentamente ad accettare la necessità della sua morte.
Come notava già fin dall’antichità il vescovo Papia di Gerapoli, Marco non è riuscito a dare sempre ordine alla sua trattazione. L’esistenza di materiale tradizionale scritto, che aveva già una sua specifica forma letteraria, lo ha obbligato, per esempio, ad anticipare i riferimenti alla morte di Gesù (lo sposo che verrà tolto) e al titolo messianico di Figlio dell’uomo (Mc 2,10 e 2,28). Ma ha comunque fornito in tal modo la prima interpretazione teologica della vicenda di Gesù. Come diceva Wrede, la sua è infatti certamente un’esposizione dogmatica. Ma è un’esposizione dogmatica saldamente ancorata nella storia stessa di Gesù. Un’esposizione il cui scopo era precisamente quello di offrire una prima interpretazione teologica dell’intera storia di Gesù. Potremmo definirla appunto una storia kerygmatica.

2.2. Il vangelo di Luca
Gli evangelisti successivi hanno ripreso ciascuno a suo modo il tentativo operato da Marco di offrire una spiegazione teologica della storia di Gesù. Luca, che scrive probabilmente negli anni 80, viene spesso definito come lo storico tra gli evangelisti: colui che, fornito di una buona cultura greca, più degli altri rivela sensibilità e interesse per la storia. E in effetti fin dal prologo del suo vangelo mostra di conoscere le esigenze particolari di una trattazione storica. Si è accuratamente documentato sulla vicenda di Gesù (oltre al vangelo di Marco utilizza almeno la cosiddetta fonte Q) e corregge Marco quando gli sembra riportare i fatti in maniera storicamente poco attendibile (cf., per esempio, il racconto del processo di Gesù). Insiste perciò in modo tutto particolare sull’idea squisitamente storica della testimonianza. Quello che egli scrive è fondato sull’autorità di coloro che sono stati testimoni, e testimoni oculari (autoptai), della vicenda di Gesù. È questo che garantisce nella maniera migliore l’attendibilità di quanto egli racconta. In realtà anche l’esposizione di Luca è, come quella di Marco, un’esposizione squisitamente dogmatica. La testimonianza cui si riferisce Luca non è infatti un’idea soltanto storica. I testimoni oculari a cui egli si richiama sono diventati nel frattempo «servitori della Parola», ministri cioè di Cristo al servizio della predicazione. E i Dodici, cui spetta per Luca in modo del tutto particolare il compito della testimonianza, sono testimoni anzitutto di quell’evento unico di rivelazione che è la risurrezione di Gesù. Ne garantiscono non soltanto la storicità del fatto, ma anche la verità del contenuto. La testimonianza cui pensa Luca è dunque garanzia del significato teologico della vicenda di Gesù. Anche le «correzioni» che egli apporta al vangelo di Marco rispondono al bisogno di garantire questa verità teologica più che quella storica. Ma, più ancora di Marco, egli sente il bisogno di presentare il suo Gesù come figura storica, che vive e agisce in un preciso contesto storico (si pensi soltanto alle indicazioni cronologiche che egli fornisce ai vv. 3,1-2 del suo vangelo).

2.3. Il vangelo di Matteo
La prospettiva di Matteo è ancora più chiara. Matteo è un giudeo che scrive (probabilmente anch’egli negli anni 80) ad altri giudei. Il suo scopo è convincere i suoi connazionali che Gesù di Nazaret è proprio il Messia che essi attendevano, il Figlio di David dei profeti e dei salmi. Egli legge perciò la vita di Gesù come il compimento della Scrittura giudaica. Negli avvenimenti della vita di Gesù si sono compiute in maniera definitiva le profezie della Scrittura. E non soltanto quelle che già i giudei avevano letto come profezie messianiche, ma anche quelle che i giudei non avevano letto come profezie messianiche. Nella nascita di Gesù trova infatti compimento la profezia sulla nascita dell’Emmanuele di Is 7,14. La morte di Gesù realizza la profezia del servo sofferente di Yhwh di Is 52,13-53,12. L’insediamento alla destra di Dio del Sal 110 prefigura la risurrezione e la glorificazione di Gesù. E questi sono testi che i giudei non interpretavano in senso messianico. L’idea del compimento non è quindi un’idea puramente storica, la constatazione dell’effettivo avverarsi delle profezie, ma va molto al di là della semplice constatazione storica. Essa è fondata su una nuova lettura della Scrittura che è resa possibile soltanto dalla fede in Cristo ed è quindi squisitamente teologica, e specificamente cristiana. Ma ancora una volta, come Marco e Luca, Matteo vuole restare ancorato saldamente alla storia. Pretende infatti di offrire un’interpretazione teologica di eventi che sono squisitamente storici.

2.4. Il vangelo di Giovanni
Particolarmente interessante è infine il caso di Giovanni. Da sempre infatti questo vangelo è considerato un vangelo «spirituale», segnato più degli altri da una precisa impronta teologica. D.F. Strauss parlava per Giovanni di mito alla seconda potenza, rispetto al semplice mito dei sinottici. E per il modo in cui presenta la figura di Gesù, quindi per la sua cristologia, oltre che per la sua scarsa attenzione agli elementi cronologici e geografici della vicenda di Gesù, si parla spesso per Giovanni di una sua sovrana indifferenza per la storia e lo si considera particolarmente vicino alla gnosi. Il Gesù di Giovanni sarebbe un primo esempio di mito gnostico di Gesù: un Gesù che avrebbe perduto quindi ogni aggancio reale con la storia. E tuttavia anche Giovanni sceglie il genere letterario del vangelo, che riporta la predicazione di Gesù nella forma di una narrazione storica. E basa la sua narrazione sul tema del ricordo (cf. gli episodi dell’ingresso in Gerusalemme e della purificazione del tempio). Come Marco, egli sottolinea che i discepoli durante la vita di Gesù non avevano compreso il vero significato degli avvenimenti a cui avevano preso parte. Soltanto dopo che Gesù viene innalzato, cioè dopo la risurrezione, lo Spirito da lui inviato consente di comprendere quel significato. Ma la comprensione avviene mediante il ricordo. È ricordando la Scrittura che i discepoli comprendono il vero significato degli avvenimenti della vita di Gesù. Ed è ricordando gli avvenimenti della vita di Gesù che essi comprendono realmente il significato della Scrittura. Giovanni non è uno gnostico. La figura di Gesù non svanisce nel mito, ma resta fondata nella storia.
I vangeli canonici offrono indiscutibilmente un’interpretazione teologica della figura di Gesù, che non coincide, e non può coincidere, con la sua comprensione storica. Ma questa interpretazione è interpretazione della figura storica di Gesù. Posso ripetere quindi quanto ho scritto nel mio Il cristianesimo ha tradito Gesù?:
L’interpretazione della figura di Gesù di Marco, Luca, Matteo e Giovanni, che diventerà abbastanza rapidamente l’interpretazione canonica, è interamente fondata sul paradosso che il Cristo della fede delle comunità cristiane è proprio il Gesù terreno conosciuto dai suoi discepoli.


3. Interpretazione teologica e storia di Gesù

3.1. Vangeli canonici e vangeli apocrifi
Ma non può essere che nel compiere questa operazione paradossale i vangeli canonici hanno in realtà tradito Gesù? E non deve quindi lo storico far riferimento, nella sua ricostruzione della figura di Gesù, anche agli scritti apocrifi? Non potrebbero proprio gli apocrifi aver conservato un’immagine di Gesù più vicina al Gesù della storia? Si pone qui necessariamente per lo storico (per il teologo infatti non si pone) il problema del canone del Nuovo Testamento, e quindi dei vangeli apocrifi esclusi da questo canone.
Fino a pochi decenni fa l’interpretazione della figura di Gesù, e la ricerca stessa del Gesù storico, sono state compiute dagli studiosi, nella stragrande maggioranza teologi cristiani, solo sulla base dei vangeli canonici. I vangeli canonici, e in particolare i sinottici, Marco, Luca e Matteo, sono stati considerati l’unica fonte attendibile per una ricostruzione storica della figura di Gesù. Ma i vangeli canonici sono, come ho detto, un’interpretazione teologica della figura di Gesù, e sono anzi quella particolare interpretazione teologica che la chiesa ha ritenuto di considerare autentica, e quindi normativa della propria fede. Essi sono perciò soltanto una delle fonti (e una fonte oltre tutto assai particolare) per la ricerca sul Gesù storico. Sul piano metodologico è in linea di principio assolutamente scorretto per lo storico limitare le fonti da prendere in considerazione soltanto ai vangeli canonici, o anche semplicemente affermare una loro priorità rispetto alle altre esistenti. Anche le più sofisticate motivazioni di questa preferenza, come quella che cerca, per esempio, di dare nel suo Jesus Remembered J.D.G. Dunn, secondo cui, poiché l’opera di Gesù può essere conosciuta soltanto a partire dai suoi effetti, e l’effetto fondamentale da essa prodotto è la fede dei discepoli, è soltanto nei vangeli canonici (sinottici) che abbiamo la testimonianza attendibile della sua figura, sono inevitabilmente apologetiche, e quindi scorrette. I vangeli canonici rappresentano una particolare tradizione di Gesù, e una tradizione in cui si esprime una precisa scelta teologica della chiesa. Ma lo storico deve allargare il suo sguardo a tutte le altre possibili fonti della storia di Gesù, per scegliere ovviamente quelle che risultino storicamente più attendibili. È soltanto da una valutazione strettamente storica che può nascere la scelta delle fonti da adoperare in una ricerca sul Gesù storico. E le scoperte sensazionali del secolo scorso, che hanno riportato alla luce documenti prima sconosciuti (i manoscritti «esseni» di Qumran e i testi «gnostici» di Nag-Hammadi, tra i quali il famoso, e importantissimo, Vangelo di Tommaso), hanno reso questa scelta molto più complessa che per il passato.

3.2. La formazione del canone neo-testamentario
Di fronte all’entusiasmo un po’ ingenuo suscitato da queste scoperte e da un ricorso spesso frettoloso a questi nuovi documenti, e di fronte anche al dubbio sistematico che si è affermato negli ultimi tempi nei riguardi dei vangeli canonici, in quanto frutto di una scelta teologica, due osservazioni devono tuttavia essere fatte. La formazione di un canone del Nuovo Testamento viene spesso presentata (da un’opinione tuttavia più giornalistica che scientifica) come l’atto del tutto arbitrario (un’«operazione di potere») che la chiesa (e si intende concretamente l’autorità ecclesiastica) ha compiuto nel secondo secolo per sancire il suo rifiuto di ogni legame con la tradizione giudaica e la sua sostanziale accettazione del mondo greco-romano. Persino un autore molto serio come J.P. Meier ha potuto scrivere recentemente nel suo Ebreo marginale che nei vangeli canonici c’è «la parziale trasformazione di un rabbino giudeo in un guru pagano» (vol. 4, p. 655).
Ma le cose non stanno così. Intanto si deve riconoscere che la formazione del canone neotestamentario risponde a una necessità intrinseca per i credenti in Cristo. Non c’è gruppo religioso, culturale o politico che non senta la esigenza di determinare quali siano le norme fondamentali alle quali intende fare riferimento nella sua vita. Ma soprattutto né nella scelta delle modalità né nell’individuazione del contenuto la formazione del canone è avvenuta come ho scritto sopra. La chiesa del secondo secolo è ancora in larga misura una federazione di chiese, non una chiesa fortemente centralizzata come sarà in seguito. Non c’è un papa, anche se il vescovo di Roma comincia ad avere un’autorità particolare, né ci sono concili ecumenici, anche se cominciano a riunirsi i primi sinodi episcopali.
Non c’è quindi un potere centrale in grado di stabilire in maniera autoritativa per tutta la chiesa quali debbano essere quelle norme di riferimento. La formazione del canone, che non è la definizione del canone (con carattere dogmatico questa si avrà molto più tardi, addirittura al concilio di Trento), è avvenuta in modo molto diverso. Sono in certo senso i libri stessi che si impongono nelle diverse chiese alla maggioranza dei fedeli e che vengono quindi progressivamente riconosciuti come i testi fondamentali a cui fare riferimento. E il motivo principale di questo riconoscimento non è il rifiuto della tradizione giudaica e l’accettazione della cultura greco-romana. L’influenza di questa cultura è ancora molto scarsa nei testi del Nuovo Testamento e contro Marcione l’eredità della Scrittura giudaica è pienamente conservata. La scelta dei testi è indubbiamente teologica. L’autenticità degli scritti non dipende neppure da una loro origine diretta dagli apostoli, bensì soltanto dal loro contenuto di fede. Ma – come ho detto sopra – il riferimento al Gesù storico è interamente mantenuto. Avviene lo stesso per i vangeli apocrifi? Nonostante l’entusiasmo acritico di alcuni ricercatori (si pensi soltanto a J.D. Crossan) è molto difficile sostenerlo. I vangeli apocrifi della nascita e dell’infanzia hanno un carattere puramente leggendario. Hanno essenzialmente lo scopo di venire incontro alla pietà e alla curiosità dei fedeli sui protagonisti della storia di Gesù. I vangeli gnostici non fanno quasi mai riferimento al Gesù storico. Essi sono centrati sul mito gnostico del redentore Gesù. Ed è qui che, sorti come sono quasi tutti questi vangeli dopo il primo secolo (l’unica eccezione può essere appunto il Vangelo di Tommaso), avviene quasi sempre il rifiuto della tradizione giudaica. Solo i cosiddetti vangeli giudeo-cristiani (Vangelo degli Ebrei, Vangelo dei Nazareni e Vangelo degli Egiziani), di cui possediamo soltanto pochissimi frammenti, forniscono qualche indicazione sulla figura storica di Gesù. Non è quindi un motivo teologico, ma sono considerazioni storiche, che inducono a privilegiare la tradizione canonica, e in essa la tradizione sinottica, nella ricerca sul Gesù storico.


4. Conclusione
Noi conosciamo i personaggi della storia soltanto attraverso il ricordo dei testimoni. Questo vale anche, e in modo particolare, per Gesù che, come Socrate, non ha scritto nulla. Conosciamo Gesù quasi esclusivamente attraverso i vangeli (canonici e apocrifi). Ma ricordo e testimonianza significano anche interpretazione. I vangeli non vogliono narrare soltanto la storia di Gesù, ma ne offrono un’interpretazione di fede. Sono quindi scritti non storici, ma teologici, dogmatici. E i quattro vangeli canonici costituiscono quell’interpretazione teologica, dogmatica, che la chiesa ha ritenuto di riconoscere come autentica, e quindi normativa, della propria fede. Ma questa interpretazione di fede della persona di Gesù, che in quanto tale solo nella stessa fede può essere accettata, è un’interpretazione della figura storica, e della vicenda storica, di Gesù. Gli elementi puramente leggendari si riducono sostanzialmente alle storie dell’infanzia di Luca e di Matteo (il cui valore è anch’esso teologico). E a differenza dei vangeli gnostici, i vangeli canonici già si oppongono energicamente con la loro forma narrativa a relegare Gesù nel mito. Scegliendo questi vangeli tra i molti che allora esistevano, la chiesa ha fatto certamente una scelta teologica, ma ha anche riaffermato la sua convinzione paradossale che il Cristo di quei vangeli era proprio il Gesù storico.