giovedì 1 settembre 2011

Monte Tabor




IL TABOR NELLA PREISTORIA
(Teresa Petrozzi)

Sebbene la forma conica, quasi emisferica, del Tabor faccia pensare ad un vulcano, il monte è costituito da stratificazioni di calcare che posano ad ovest sul Cretaceo inferiore e a sud ed est sul Neocene. Verso est uno strato di basalto pleistocenico si sovrappone al calcare e, circa 100 m. al di sotto del pianoro che forma la vetta, corre uno strato di selce. Fu questo particolare genere di pietra ad attirare i primi esseri umani sul colle.

Nel 1925 Mallon reperì sul pendio ovest frammenti di utensili databili al Paleolitico I; nel 1964 Stockton individuò selci lavorate e determinò che quasi tutte risalivano al Paleolitico medio (e. 70.000-40.000 a.C.) e superiore (e. 35.000-15.000 a.C.). La disposizione dei pezzi era degna di nota. Pochi giacevano nelle caverne della cima, in parte naturali ed in parte adattate artificialmente. Questo fatto e la assoluta mancanza di sorgenti d'acqua portavano ad una conclusione: le caverne non erano state abitate, almeno nel senso pieno ed usuale dell'espressione. I pezzi, al contrario, risultavano abbondanti nella faccia di selce, ma pochi potevano essere riconosciuti come utensili finiti; nella massima parte si trattava di scarti. Stockton arrivò ad una seconda conclusione: l’uomo preistorico soleva prelevare il materiale dal monte, sgrossava i pezzi e quindi esportava i manufatti semi-finiti. Le tracce della presenza umana sul monte, sia prima che dopo il Paleolitico medio e superiore risultavano poche e incerte: alcuni frammenti parevano risalire al Paleolitico inferiore; altri reperti, fra i quali alcune lame sottili di selce, potevano provenire dal Mesolitico.

IL CULTO PAGANO SUL TABOR

Secondo vari studiosi il Tabor fu per un certo dì tempo sede di culto idolatrico. Riportiamo alcune ipotesi moderne.

Hertzberg sosteneva che il Tabor aveva ospitato uno dei santuari più antichi e frequentati della Palestina preisraelitica, ed era propenso a riconoscere nella divinità venerata il Baal Sedeq, il Baal della giustizia.

Boehmer riteneva molto importante il dio adorato in quanto il nome Tabor, o la sua radice, si trova in diversi altri toponimi della zona: Hadabrat (Daberath, oggi Daburiyeh o Kh. Dabura); Chislot Tabor (oggi Iksal); Aznot Tabor (probabilmente ad est del niente). I Fenici avrebbero in seguito portato il culto oltremare ma il nome del dio è sconosciuto. Boehmer pensava che la divinità fosse nota in Palestina come Baal del Tabor, un dio della natura e della fertilità.

Per Eissfeld il Baal del Tabor sarebbe stato un dio degli elementi, relativamente simile al Baal Hadad, dal quale i fedeli si aspettavano protezione nella necessità e, nel pericolo, e successo nelle iniziative. I reperti archeologici di Beisan, Minet el-Beda e Ras esh-Shamra, che hanno portato alla luce il culto di Baal Saphon, Reshel e Mekal, inducevano Eissfeld a ritenere il santuario del Tabor anteriore al XVI-XV sec. a.C. Circa l’espansione del culto, questo autore cita alcune fonti letterarie che consentono di seguirne lo sviluppo. La notizia relativa ai tempi più antichi si trova in Filone di Biblos (c. 64-140 dC), il quale, nella sua opera Storia Fenicia, riporta brani di uno scritto di Sanchuniaton, sacerdote fenicio che sarebbe vissuto ai tempi di Salomone. Secondo Sanchuniaton e Filone, i “figli mortali” di Ghenos avevano avuto figli che li superavano per grandezza e forza. Da questi avevano preso nome quattro monti: il Casio, il Libano, l’Antilibano (Hermon) ed il Brathù. L’ultimo monte non è stato identificato. Eissfeld ritiene che si tratti del Tabor. Brathù sarebbe o un semplice errore di copia: THABYR diventa BRATHY o una corruzione di to Atabyrion che diventa Debrathù e quindi Brathù. Oltre ai baal del Casio, del Libano e dell’Hermon sarebbe esistito anche un baal del Tabor. I Cananei o i Fenici avrebbero portato poi il culto a Creta dove la divinità avrebbe assunto il nome di Atabyrion. La notizia è estrapolata da quanto riferisce Diodoro Siculo, contemporaneo di Giulio Cesare: l’oracolo aveva predetto ad Altaimene, figlio di Catreo re di Creta e nipote di Minosse, che avrebbe ucciso il padre. Per evitare ciò Altaimene lasciò Creta e, con un gruppo di persone, si trasferì a Rodi dove fondò il tempio di Zeus Atabyrion, in onore del dio più importante del suo paese. Diodoro aggiunge che ai suoi tempi il tempio era ancora frequentato. Del tempio di Rodi parlano anche altri autori vissuti prima e dopo di Diodoro, fra i quali Polibio, Strabone, Plinio il Vecchio, Lattanzio. Da Rodi il culto fu trapiantato in Sicilia. Verso il 582 a.C. Gela portò ad Akragas, l’odierna Arigento, una colonia e sul punto più alto dell’acropoli alzò un tempio a Zeus Atabyrion, le cui rovine si trovano forse sotto la cattedrale di S. Gerlando.

Lewy ricorda che in Palestina e nelle regioni vicine dell’antico Medio Oriente, gli abitanti davano spesso il nome dei loro dèi a città o a montagne e il dio diventava padrone del luogo. Questo autore è propenso a ritenere che il nome della divinità del Tabor fosse Tabor, l’artigiano del metallo, cioè Tammuz. Una antichissima città sumera, bad ti-bira, il muro dei fabbri, era dedicata a Tammuz e ad Ishtar; un testo cuneiforme (Assur 19522) dice che una delle porte dell’antica capitale assira era nota come a-bul ta-bi-ra (o ti-bi-ra o ta-bu-ra), la porta dei fabbri. Ti-bi-ra, il fabbro, era uno dei numerosi epiteti di Tammuz, il dio della fertilità, considerato inventore dell’arte di lavorare i metalli e patrono degli artigiani. Sarebbero stati i Sumeri o gli Assiri a portare nel Canaan il culto di questo dio. Il Tubal di Gn 4,22 il fabbro padre di tutti i lavoratori del rame e del ferro, il sumero ti-bi-ra e l’assiro ta-bu-ra sarebbero varianti di un solo vocabolo con significato eguale. D’altra parte, prosegue Lewy, potrebbero esser stati anche gli abitanti della regione metallifera di Tabal (Tauro), detti Tibarenòi dai Greci e Tabereni dai Latini, a trapiantare oltre i confini della loro patria il culto del dio fabbro. Infine Lewy rigetta l’ipotesi che il culto di Creta e di Rodi abbia avuto un nesso con quello del Tabor.

L’idolo del Tabor è stato ricostruito, quasi estrapolato, da fonti letterarie alquanto smilze. È lecito dubitare della sua esistenza anche perché non sono stati finora reperiti sul monte resti di un tempio e frammenti di statue (cfr. p. 223). D’altra parte il culto poteva svolgersi in un semplice bosco sacro e alcuni brani del Vecchio Testamento accennano ad una forma di idolatria che si protrasse saltuariamente fino all’VIII a.C.

IL TABOR NELL’ANTICO TESTAMENTO
Il libro di Giosuè pone nel territorio di Issacar sedici città e specifica che il confine toccava il Tabor (Gs 19,17~22). Inoltre dice che le terre assegnate a Zabulon arrivavano fino a Daberat (Gs 19,12), oggi Daburiyeh o Kh. Dabura rispettivamente a ovest e a nord del monte, mentre quelle di Neftali giungevano fino ad Aznot Tabor (Gs 19,34), da ricercarsi probabilmente ad est. Il Tabor veniva a trovarsi nel punto in cui convergevano i confini delle tre tribù.

In molte religioni le montagne hanno carattere sacro. La religione israelitica non faceva eccezione e nell’Antico Testamento troviamo numerosi riferimenti a montagne considerate sacre. Ne citiamo alcuni: Iahve quando ebbe finito di parlare con Mosè sul Monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza (Es 31,18); all’Horeb, il monte di Dio, salì Elia (1 Re 19,8); Isaia predisse: Avverrà che, alla fine dei giorni, si ergerà il monte del tempio di Iahve sulla cima dei monti e si innalzerà sui colli (Is 2,2); Daniele invocò:
Signore, per tutta la tua misericordia, si allontani, ti preghiamo, la tua ira e il tuo sdegno da Gerusalemme, tua città, tuo santo monte (Dn 9,16).Il Tabor, che con la sua altera cupola dominava le pianure circostanti, dovette imporsi alla mente degli Israeliti e non è da escludere che essi abbiano in un primo momento tollerato il baal che era adorato là; il monte può aver mantenuto il suo antico carattere sacro nella religiosità israelitica popolare, non sempre aderente alla teologia canonica ortodossa.

Peraltro, nell’episodio di Debora (Gdc 4 e 5), che ruota intorno al Tabor, si vede che il culto iahvistico è già instaurato sul monte. Particolarmente importanti in questo senso sono i vv. 4,6 e 5,8. Nel primo Debora incita Barac a radunare le truppe sul Tabor. Questa mossa non deve esser stata dettata tanto dalla strategia quanto dal desiderio di pregare il vero Dio in vista della lotta contro gli invasori. Nel secondo Debora e Barac ricordano che gli Israeliti si erano scelti dèi stranieri, allora la guerra fu alle porte: gli dèi stranieri appartenevano al passato ed erano stati cancellati dal Dio personale. La benedizione di Mosè può essere allora considerata come riconoscimento di un culto legittimo. Il redattore di Dt 33, 18-19, nello scrivere: Gioisci, Zabulon, nelle tue spedizioni, e tu, Issacar, nelle tue tende! Essi invitano popoli alla montagna; là offrono sacrifici di giustizia, avrebbe avuto in mente il Tabor, unico monte importante al quale le due tribù potevano facilmente salire.

Il Tabor compare quindi nell’episodio di Gdc 8,18: sul monte i capi dei Madianiti uccidono i fratelli di Gedeone.

Seguono due passi controversi. In 1 Sm 10,3 Samuele ordina a Saul, da poco unto re, di andare fino alla Quercia del Tabor nella regione di Betel. Non si può escludere che anche sulla montagna di Efraim esistesse una località detta Tabor; il Monte Tabor sembra peraltro fuori discussione e diverse versioni accreditate leggono Quercia di Debora, rifacendosi a Gdc 4,5 dove è detto che la profetessa sedeva sotto la palma di Debora, fra Rama e Betel. In 1 Cr 6,62 sono elencate le città levitiche: Ai restanti figli di Merari si assegnarono nella tribù di Zabulon: Rimmono con i suoi pascoli, Tabor con i suoi pascoli. Secondo i competenti questo "Tabor" è una lezione improbabile perché una città di tal nome nel territorio di Zabulon non è ricordata in altri passi. Di conseguenza alcuni propongono di leggere Chislot Tabor (Iksal); altri, tenendo presente il brano parallelo di Gs 19,15, ritengono che si tratti di Naalal.

Il Tabor compare quindi in Osea, profeta che svolse il suo ministero nella seconda metà dell’VIII sec. a.C. nel regno di Israele. Dopo il tempo di Debora l’idolo del monte dovette essere riportato in onore perché le tribù del nord continuavano a praticare un culto sincretistico. Tale culto era stato reso ufficiale da Geroboamo I, primo re di Israele (930-910 a.C.), con l’erezione di immagini di tori a Betel e a Dan (o il toro era il simbolo teriomorfico del cananeo Baal Hadad), e da Acab (874-853 a.C.) con la costruzione a Samaria, allora capitale del regno, di un tempio dedicato a Baal Melqart, dio degli Inferi. In seguito Elia aveva scannato i sacerdoti idolatri (1 Re 18,40), Ieu allo sterminio dei falsi profeti aveva aggiunto la distruzione dei tempio di Samaria (2 Re 10,25-27). Peraltro, tali interventi non avevano avuto un effetto duraturo e Osea dichiarò fermamente: Toglierò i nomi dei Baal dalla sua bocca, essi non saranno più menzionati per nome (2,19) e denunciò la responsabilità dei sacerdoti e dei principi: Ascoltate questo, o sacerdoti; state attenti, o casa di Israele; o casa del re, porgete orecchio, perché contro di voi é la sentenza; voi che siete stati un laccio a Mispa, una rete tesa sul Tabor (5,1). Non si conosce la ragione per cui Mispa era diventata occasione di scandalo. Nelle parole rete tesa sul Tabor Lewy vede una conferma alla sua teoria secondo la quale il dio venerato sul monte era Tammuz: nelle lamentazioni sumere per la morte di questo dio si trova generalmente l’epiteto umum safar, il signore della rete. Osea uccise il Baal del Tabor: l’Antico Testamento non accenna più ad esso né direttamente né indirettamente.

Troviamo poi il Tabor in un altro profeta, Geremia, che lo considera, unitamente al Carmelo, un simbolo di preminenza. Nei vaticini contro le nazioni Geremia infatti rimarca la superiorità di Nabucodonosor paragonandolo alle due montagne: Pari al Tabor rispetto ad altri monti e al Carmelo che incombe sul mare, egli verrà (46,18). Il Tabor è nominato l’ultima volta dall’Antico Testamento nel SI 89, che è tutto una celebrazione alla fedeltà di Dio: Il Tabor e Hermon esultano nel tuo nome (v. 13).
L’INCONTRO DI MELCHISEDEC CON ABRAMO

Nel quadro dell’Antico Testamento un posto a sé merita l’incontro di Melchisedec con Abramo, legato al Tabor da una tradizione.

In Gn 14,17-20 viene riferito che:
Tornando, Abram dall’aver battuto Chedorlaomer e i re che erano con lui, gli uscì incontro il re di Sodoma, nella valle di Save, ossia la valle del Re. E Melchisedec, re di Salem, fece portare pane e vino: egli infatti era sacerdote di Dio Altissimo. E lo benedì e disse: “Benedetto sia Abram da Dio Altissima, creatore del cielo e della terra, benedetto sia il Dio Altissimo che ti ha dato nelle mani i tuoi nemici”. Abram, gli diede la decima di tutto.Circa il luogo di questo incontro sono state sviluppate diverse teorie. Basandosi su Sal 76,3 che avvicina Salem al Sion (Ed in Salem è la sua tenda e la sua dimora in Sion), una tradizione giudea collocava il posto a Gerusalemme. Secondo il Targum Onkelos ed il Targum Jonathan i due personaggi si sarebbero incontrati “nella pianura di Mefana, che era il campo di corse del re”; secondo Flavio Giuseppe, nella Valle del Re, cioè presso la piscina di Siloe. In seguito la localizzazione venne trasferita sulla Spianata del Tempio.

L’esistenza di una seconda tradizione giudea fu rivelata da un rotolo scritto in aramaico, scoperto nel 1947 nella grotta n. 1 di Qumran: “E il re di Sodom [ ... ] salì verso di lui e venne a Salem che è Gerusalemme. E Abramo era accampato nella Valle di Shave, che é la Valletta del Re, nella pianura di Beth ha-Kerem”. L’incontro sarebbe quindi avvenuto nei pressi della odierna Ain Karim. Avigad e Yadin ritengono che il rotolo risalga al I sec. a.C. - I sec. d.C.; ciò peraltro non fissa la data originale, in quanto il rotolo può essere sia la traduzione di un testo ebraico che la copia di uno aramaico più antichi. Conseguentemente anche il tempo in cui questa tradizione nacque resta oscuro; è possibile soltanto dire che si tratta di una tradizione parallela alla prima.

Un’altra tradizione, anche essa nata in epoca indeterminabile, è quella dei Samaritani, i quali trasferirono l’incontro in Samaria, ed esattamente sul Garizim, il loro monte santo. I Samaritani erano in un certo senso giustificati poiché in Gn 83,18 si legge: E Giacobbe arrivò a Salem, città di Sichem (versione dei Settanta e Vulgata) e la valle di Salem (Gdt 4,3) è collocata in Samaria.

I Giudeo-Cristiani localizzarono l’incontro nella grotta che si trova sotto il Calvario, grotta da loro ritenuta l’ombelico del mondo, dove si sarebbero svolte tutte le principali azioni dei Patriarchi e da dove, infine, Gesù sarebbe disceso agli inferi (Ef 4,9) attraverso la fenditura della roccia (Mt 27,51). In quella grotta, “luogo dove si compirà la redenzione del mondo”, Sem aveva seppellito Adamo e Melchisedec, come sacerdote, ne custodiva la tomba. A quanto risulta, il primo pellegrino a parlare di questa tradizione fu l’Anonimo di Piacenza nel 570 e la notizia fu ripresa molto saltuariamente dai viaggiatori occidentali.

Nel IV sec. venne poi sostenuta la teoria secondo la quale Salem si sarebbe trovata nella valle del Giordano. Un esponente di tale teoria fu Eusebio ed Eteria vide in quella Salem le rovine del palazzo di Melchisedec. San Girolamo, dopo aver pensato a Gerusalemme, abbracciò la teoria del Giordano (PL 22,680) e infine ritornò alla prima soluzione (PL 22,883).

Nel frattempo i Melchisedechiani, membri di una setta gnostica, avevano portato la tradizione sul Monte Tabor, dove esisteva uno dei loro centri.

Il Tabor fu riconosciuto come luogo dell’incontro anche dalla Chiesa dei Gentili. Sant’Atanasio vescovo di Alessandria (IV sec.) scrisse la Historia de Melchisedech (PG 28, 525-530). Tale storia, che spiega anche fantasiosamente il motivo per cui Melchisedec è chiamato senza genealogia (Eb 7,3), influenzò probabilmente i Copti e visse nella tradizione del monte almeno fino al XIV sec. Per quanto concerne il Tabor, il santo vescovo narra che, dopo tragici avvenimenti familiari, Melchisedec restò sul monte sette anni, nudo come quando era nato. Le unghie divennero lunghe un palmo, i capelli gli arrivarono all’ombelico e la schiena si indurì come il guscio di una tartaruga. Mangiava bacche e beveva rugiada. Dopo sette anni una voce disse ad Abramo: “Prepara la cavalcatura, indossa vesti preziose, sali al Tabor e chiama tre volte ‘Uomo di Dio’ e ti si presenterà un uomo selvaggio. Non temere, ma radilo e tagliagli le unghie, vestilo e accetta la sua benedizione”. Abramo eseguì gli ordini e tutto avvenne come Dio aveva detto. Dopo tre giorni Melchisedec scese dal Tabor e benedisse Abramo. Quando poi Abramo ritornò dall’aver ucciso i re, Melchisedec gli offri un calice di vino in cui aveva messo un pezzetto di pane. e fece la stessa offerta anche ai 318 uomini di Abramo. Questo fu il tipo del sacrificio incruento del Salvatore.

Secondo un testo copto, il Signore ordinò ad Abramo di salire al Tabor con pane, vino ed acqua, di chiamare Melchisedec, di tagliargli i capelli, le unghie e la punta della barba e di mangiare le spuntature prima di porgergli le offerte. Abramo eseguì l’ordine e lo benedì. Il testo, chiamato da Goodenough “La Preghiera del Pane”. termina con una invocazione: “Così ora di nuovo, Signore, sii tu colui che benedice questo pane; dallo al tuo servo come pegno di unione”. La pratica magica del mangiare le spuntature è pre-cristiana o comunque indipendente dal Cristianesimo. Tuttavia la fine della preghiera indica chiaramente che il pane doveva essere mangiato come un sacramento di matrimonio mistico del fedele con Dio. Con ogni probabilità i Copti, e forse prima di loro i Melchisedechiani, avevano cristianizzato un uso e un rito esistenti.

Questo sembra essere il cammino percorso dalla tradizione. Hertzberg, che riteneva Melchisedec un personaggio del Canaan del Nord e probabilmente sacerdote del Baal Sedeq, proponeva il senso inverso: la tradizione del sacerdote-re cananeo, originariamente legata al Tabor, sarebbe stata trasferita dai Giudei, dai Samaritani e dai Cristiani nei luoghi rispettivamente considerati più santi.

Dal canto loro i visitatori, del Tabor videro il luogo dell’incontro a Daburiyeh, il villaggio ai piedi del monte, o sulla cima o sul pendio. Non mancarono quelli che lo trasportarono nei pressi di Endor, a Naim ed ai piedi del Gelboe. Alcune cronache ci sembrano interessanti.

Daniele (1106) dice: A un buon tiro di freccia ad ovest della Trasfigurazione si trova una grotta dalla quale Melchisedec uscì quando Abramo lo chiamò ‘Uomo di Dio’. Daniele riprende il testo di Atanasio: “Abramo tagliò a Melchisedec i capelli e le unghie perché era villoso”. Nella grotta Melchisedec eresse un altare e offrì un sacrificio con il pane e il vino, che Dio portò in cielo. Daniele spiega che questo fu l’inizio della liturgia con il pane e il vino e non con gli azimi. Giovanni di Würzburg (1165) deve aver sentito ancora parlare di una delle antiche credenze che identificavano Melchisedec con Seni, Set, Enoc, Cani, Canaan e Mesraim figli di Cani, Giobbe, e specifica: “Melchisedec che è Seni figlio di Noè”. Teodorico (1172) traduce in termini cristiani quanto restava della tradizione: “Su questo monte è stata eretta una nobile chiesa in onore del Salvatore, nella quale dei monaci servono Dio sotto la guida di un abate. Si dice che là sia stato offerto per la prima volta il sacrificio della Messa”.

Inoltre, Sanuto (1310), pur non riferendosi direttamente all’incontro, ci ha lasciato una indicazione topografica: A due leghe da Nazaret c’é il Monte Tabor e oltre il Monte Tabor, verso est, c’è la valle di Shaveh, che è la valle del Re. Nel 1928 Hertzberg ricordava che una valle della Galilea sudoccidentale si chiamava ancora valle del Re, Uadi el-Melek.

Attualmente la tradizione dell’incontro sopravvive in due posti, entrambi di proprietà greco-ortodossa: Sul Tabor, in una grotta poco a nord di Bab el-Haua, esattamente a un buon tiro di freccia ad ovest della basilica della Trasfigurazione, e nella cappella di Adamo sottostante il Calvario.

Nella prima metà del XVII sec., Roger scrisse: “Fra il Monte Armont [Piccolo Hermon] e le montagne di Gelboe si vede in una valletta il sito dove, così dicono, Melchisedec offri pane e vino in sacrificio e dove non ci sono resti di costruzioni. La pietra su cui offrì tale sacrificio è sotto il Monte Calvario, nella cappella degli Abissini”. Questa notizia spiega la duplicazione del ricordo in una maniera che può riflettere un lato della realtà.

IL TABOR NELLA LETTERATURA RABBINICA

Il Tabor dei rabbini si presenta sotto aspetti diversi.

In due trattati del Talmud di Babilonia, Zebaim e Baba Bathra, il monte è preso a misura di grandezza: “Esisteva un animale tanto grande che non entrava nell’arca; quanto era grande? era grande quanto il Tabor; e quanto è grande il Tabor? Quaranta parasanghe.”

Secondo un’altra scuola esso è un monte santo. La Midrash Yalkut, riferendosi ai sacrifici di giustizia di Dt 33,19, sostiene che il Tabor e il monte sul quale il Tempio doveva essere costruito, di diritto [ ... ] se non fosse stato per una espressa rivelazione che ordinava di erigere il santuario sul Monte Moria. L’autore del trattato Tehillim annuncia: Nel tempo a venire Dio farà scendere la Gerusalemme celeste su questi quattro monti: Tabor, Hermon, Carmelo e Sinai.

Una terza scuola presenta il Tabor come un simbolo di orgoglio e di presunzione. Nel commento al versetto del Cantico di Debora, i monti rabbrividirono innanzi a Iahve, innanzi a Iahve Dio di Israele (Gdc 5,5), il Targum di Gerusalemme fa dire al Tabor: “Su di me si libra la presenza divina, a me essa appartiene di diritto. Quando all’inizio, ai giorni di Noè, le acque del diluvio coprivano tutte le montagne, i flutti non arrivarono né alla mia testa né alle mie spalle. Io sono dunque più elevato di tutte le montagne ed è mio privilegio legittimo che Dio dimori su di me.”

La Midrash su Genesi racconta che, mentre le nazioni ed i popoli si rifiutavano di accettare la Legge, i monti disputavano fra di loro contendendosi l’onore di essere prescelti come luogo della rivelazione. Il Tabor si vantava di essere il più alto, appunto perché aveva torreggiato sulle acque del diluvio; l’Hermon accampava diritti perché, al momento dell’Esodo, si era steso fra le due sponde del Mar Rosso permettendo agli Israeliti di passare; il Carmelo, sicuro della sua posizione, taceva e pensava: Se la presenza di Dio, la Shekinah, deve sostare sul mare, sosterà su di me, e se deve sostare sulla terra ferma, sosterà su di me. Ma una voce risuonò dall’alto e dichiarò: la presenza divina non si fermerà su questi alti monti, che sono così superbi, bensi sul Sinai, che è il più piccolo ed il più insignificante di tutti. La stessa Midrash precisa che il Sinai fu preferito anche perché su di esso non erano stati adorati idoli.

Secondo la tradizione, peraltro, il Tabor ed il Carmelo fecero spontaneamente atto di sottomissione: essi, o i loro angeli degli elementi, andarono al Sinai quando venne data la Legge. Il Tehillim aggiunge che il Signore fu commosso dalle buone intenzioni dei due monti e dichiarò: Poiché vi affannate in mio onore vi ricompenserò. Guardate, al tempo di Debora libererò i figli di Israele sul Monte Tabor, come e detto: e sali verso il Monte Tabor (Gdc 4,6); e anche libererò Elia sul Monte Carmelo, come è detto: Acab [ ... ] riunì i profeti sul Monte Carmelo (1 Re 18,20). L’Hermon non è ricordato.

Le stesse considerazioni sulle pretese orgogliose del Tabor e del Carmelo sono ripetute nel Targum, nella Midrash su Numeri e sul Salmo 68 e nella
Pesikta Rabbati.
L’Antico Testamento non lascia luogo a dubbi circa il fatto che la Legge fu data sul Sinai. L’insistenza con la quale i Rabbini sostenevano questo punto, proclamando che il Tabor ed il Carmelo erano stati scartati per il loro presuntuoso comportamento, ed il silenzio che sopravviene nei riguardi dell’Hermon, possono essere il riflesso di una polemica. I Rabbini compilarono i loro trattati nei primi secoli della nostra èra, mentre il Cristianesimo si stava espandendo. Il Carmelo, sul quale vivevano monaci ed eremiti cristiani, ed il Tabor, ritenuto particolarmente santo dai Giudeo-Cristiani, dovevano essere umiliati e accontentarsi di un premio di consolazione. Dell’Hermon era inutile parlare in quanto non era connesso al culto cristiano.

Comunque. il Tabor restò impresso nell’animo degli Israeliti. Ancora oggi, tra le preghiere recitate alla fine dello Shabbath, essi ripetono un inno, Havdalah, attribuito a Isaac ibn Chayyat (1030-1089), nel quale si dice che la giustizia misericordiosa di Dio è simile al Monte Tabor.

DA ANTIOCO III ALLA I GUERRA GIUDAICA

Dopo gli episodi di Debora e di Gedeone il Tabor ritorna nella storia con una serie di battaglie, che iniziano nel periodo ellenistico.

Alessandro Magno. aveva conquistato la Palestina nel 333 a.C. vincendo i Persiani alla battaglia di Isso. Alla sua morte, avvenuta dieci anni dopo, l’impero macedone fu tormentato da un lungo periodo di guerre fra i diadochi, che si concluse verso il 301 a.C. Allora a Tolomeo fu confermato il possesso dell’Egitto e della Palestina ed a Seleuco venne assegnata la Siria. Antioco III di Siria, nel corso di una guerra contro Tolomeo IV di Egitto, entrò nel territorio del rivale e nel 218 a.C., scendendo da nord, si diresse verso Filoteria e poi, verso Beisan. Di là - superati i monti - marciò in direzione di Atabyrion. Polibio, che narra gli avvenimenti della spedizione, dice che Atabyrion era una città su un monte conico alto più di 15 stadi (ca 3 km). Sul monte gli Egiziani potevano senz’altro aver costruito delle fortificazioni come faranno in seguito Flavio Giuseppe e i Saraceni. C’è tuttavia un particolare in Polibio che distoglie dal Tabor: “superati i monti”. Sulla strada da Beisan al Tabor non ci sono montagne da valicare, a meno che Antioco III, lasciate le strade in pianura, abbia ritenuto opportuno far salire i suoi uomini sul Piccolo Hermon, per poi farli scendere immediatamente,

Comunque, Polibio riferisce la presa di Atabyrion. Antioco III provocò i difensori della città e poi, quando questi reagirono, simulò una ritirata. Gli Egiziani caddero nella trappola: mentre lo inseguivano, furono attaccati dai Siriani che si erano appostati lungo il cammino e subirono forti perdite. Lasciato un presidio nella città, Antioco III attraversò il Giordano e conquistò Pella, Camus e Gefrus. La guerra continuò fra Antioco III e Tolomeo V e terminò nel 198 a.C. con la battaglia di Panion che vide vincitori i Siriani. Strabone 2 e Flavio Giuseppe parlano della guerra ma non accennano alla presa della città di Atabyrion.

Alessandro Janneo, fiero discendente dei Maccabei, continuando la guerra di indipendenza contro i Siriani, verso il 100 a.C. conquistò anche il monte Atabyrion e annesse la regione al regno asmoneo di Giuda.

La Galilea passò quindi in mani romane. Mentre il proconsole Gabinio era in Egitto, nel 55 a.C. un altro Asmoneo, Alessandro figlio di Aristobulo, si impossessò del potere e, percorrendo il paese alla testa di un grosso esercito, uccideva tutti i Romani che incontrava. Gabinio lasciò in fretta l’Egitto, tramite Antipatro persuase una parte dei Giudei a sottomettersi ma non potè fermare Alessandro. Questi, con 30.000 uomini, marciò contro Gabinio e ingaggiò battaglia presso il Tabor. La fortuna gli fu contraria: 10.000 Giudei caddero e gli altri si dispersero scappando.

Si arriva quindi alla prima Guerra Giudaica. Il comandante della Galilea Flavio Giuseppe, prevedendo che i Romani avrebbero attaccato anzi tutto la sua regione, fortificò le città di Jotapata, Bersabe, Selame, Cafareccio, Japha, Segov, Tarichea e Tiberiade nonché il monte chiamato Atabyrion o Tabor. Sul Tabor trovarono scampo dei Galilei. Lo storico dice: Quei Galilei, che dopo la conquista di Jotapata si erano ribellati ai Romani, si sottomisero quando quelli di Tarichea furono debellati; cosicché i Romani si impadronirono di tutti i castelli e di tutte le città, ad eccezione di Giscala e di quelli che avevano occupato il monte Itabyrion.

Sul monte, accessibile a mala pena dal declivio occidentale, Flavio Giuseppe fece alzare in soli 40 giorni un muro lungo 26 stadi che abbracciava tutta la sommità pianeggiante. Per poter compiere l’opera Flavio Giuseppe fece portare dalla pianura non soltanto i materiali occorrenti ma anche l’acqua, giacché quelli che vi si trovavano avevano soltanto acqua piovana. Nel 66 d.C. il generale romano Vespasiano, si occupò di coloro che si erano impadroniti del monte e mandò il suo tribuno Placido con 600 cavalleggeri. Placido agì come aveva fatto Antioco III. Quando i Giudei iniziarono a combattere, egli finse di scappare e, arrivato in pianura, fece intervenire la cavalleria. Le perdite da parte giudea furono ingenti; molti superstiti fuggirono verso Gerusalemme e quelli che restarono consegnarono se stessi e il monte a Placido.

L’EPOCA ROMANO-BIZANTINAAl periodo burrascoso seguì un periodo di pace durante il quale vennero costruiti sul monte monasteri e chiese in memoria della Trasfigurazione. Le fonti letterarie sono abbastanza ricche di informazioni generali. S. Helenae et Constantini Vita, documento pervenutoci in copie dell’XI-XII sec., ma probabilmente composto verso la metà del VII sec., riferisce che S. Elena salì sul Tabor e che, dopo aver cercato e trovato il luogo dove era avvenuta la Trasfigurazione, vi fece erigere una chiesa in onore del Salvatore e dei tre Apostoli. La notizia fu ripresa da Niceforo Callisto (PG 146,113). Potremmo trovare una conferma indiretta in Epifanio, Monaco: pur non accennando a costruzioni di S. Elena, egli dice che esisteva una scala di 4340 gradini che andava dalla valle alla cima del monte (PG 120,272). Epifanio - il primo autore di lingua greca che, a quanto risulti, abbia composto una relazione sui Luoghi Santi - scriveva nel 750-800 basandosi su documenti anteriori e probabilmente diceva il vero. Anche sul Monte degli Olivi una scalinata di 800 gradini, ritenuta opera di Costantino, saliva dalla valle del Cedron fino al luogo dell’Ascensione di nostro Signore.

Agli inizi del VI sec. esisteva già una diocesi del Tabor. Al sinodo di Gerusalemme del 518 un vescovo firmò in greco scritto con caratteri latini. Tale firma risultava illegibile ai copisti degli atti dei concili e fu tralasciata o ricopiata soltanto in parte, così che il nome della sede andò perso. Nel 1940 Schwartz riuscì a decifrare la firma: Prestutus episcopos tou hagiou orous Thabor, Prestuto vescovo del santo monte Tabor. Di conseguenza risultava che la diocesi del Tabor era una delle più antiche della valle di Esdrelon.

Può darsi che la chiesa costantiniana sia stata demolita per far posto alla cattedrale e a due cappelle. L’Anonimo di Piacenza (570) vide tre edifici sacri e un secolo dopo Arculfo parlò di un grande monastero, di tre chiese e di molte celle abitate da monaci. Oltre che sulla cima del Tabor, religiosi vivevano anche su un monticello ad est dell’attuale basilica, dove l’arch. Barluzzi rintracciò nel 1921 una cella ed i resti di una cappellina.

Una omelia in armeno sulla Trasfigurazione, datata ca 630, secondo alcuni autori datata al V sec. e attribuita ad Eliseo Vardapet, dà ampie notizie sulla vita degli eremiti.

Quando il testo fu redatto la comunità contava moltissimi membri che vivevano più con lo spirito che con il corpo. Distaccati da tutti i desideri umani, non accettavano oro o argento o indumenti o quanto è necessario per il fisico. Vestiti di pelli, lavoravano in silenzio il terreno con zappe di legno, seminavano grano, orzo ed altri cereali e, arrivato il raccolto a maturazione, trebbiavano a vento. Nessun quadrupede era ammesso sul monte. Con i giunchi intessevano ceste e stuoie. Il cibo era ridotto al minimo: pane e acqua leggermente salata che chiamavano ambrosia, pochissimo olio, niente vino. L’olio era riservato alle lampade che ardevano continuamente nelle tre chiese ed il vino era riservato al calice della Messa. Non avevano medicine per i malati ne provviste speciali per gli ospiti. L’unico lusso che si concedevano era l’infuso di un’erba, detta niv, sale e issopo, che bevevano nei giorni più caldi. A questa austerità molti aggiungevano lunghi digiuni. Le privazioni peraltro non indurivano il cuore degli eremiti, i quali dedicavano ai confratelli vecchi e infermi - che chiamavano angeli - le attenzioni che negavano a se stessi. La mancanza di cibo corporale era ampiamente bilanciata dalla ricchezza del cibo spirituale. Ogni giorno i monaci recitavano i 150 salmi e leggevano la Sacra Scrittura; per le orazioni del mattino e della sera si riuniva tutta la comunità e dei sacerdoti, secondo un turno stabilito, continuavano l’officiatura nelle tre chiese di giorno e di notte.

Si trattava quindi di eremiti acèmeti, gli insonni, che pregavano ininterrottamente.

Il testo distingue tre edifici sacri: uno grande, chiamato chiesa del Signore, e due più piccoli, detti Martyria, dedicati a Mosè e ad Elia, dove erano conservate le reliquie degli Apostoli che avevano assistito alla Trasfigurazione.

L’uso di conservare reliquie in un martyrium, cioè in un piccolo loculo dell’altare o in una cameretta sottostante l’altare, risale al IV sec. In Siria e in Palestina spesso le reliquie erano poste in cappelle costruite vicino ad una chiesa: così era stato fatto sul Tabor.

Il testo di Vardapet non specifica se gli eremiti erano di rito latino (Benedettini?), greco o armeno. Probabilmente monaci di riti diversi vivevano insieme sul Tabor come in molti altri luoghi. Quasi certamente il vescovo Prestuto era latino; il pellegrino armeno Anastasio ricorda il monastero del Tabor come uno dei 15 stabilimenti restati agli Armeni dopo la conquista araba e un documento, citato da Alt e da Beyer, enumera fra le diocesi greche esistenti prima delle Crociate, quella del Tabor.

Soltanto un nome dei monaci del Monte Santo è arrivato fino a noi: Damiano, nativo della Siria, il quale si trasferì in Egitto e divenne nel 578 vescovo di Alessandria.

Nell’VIII sec. esistevano in Europa eulogie del Tabor. Probabilmente esse erano state portate o raccolte da S. Angilberto, uno dei principali ausiliari e confidenti di Carlomagno e discepolo di Alcuino. Ci sembra significativo il fatto che Angilberto fosse abate della abbazia benedettina di Centula o Saint-Riquier (diocesi di Amiens).

Sembra che il Tabor non abbia sofferto per l’incursione dei Persiani di Cosroe (614) e che i religiosi abbiano continuato a dimorare sulla sua cima indisturbati anche dopo la conquista araba del 637. Tuttavia il “grandissimo numero” di eremiti dell’autore armeno diminuì. Agli inizi del IX sec. il Commemoratorium de Casis Dei registra 18 monaci ed Epifanio Monaco registra 12 abbades (PG 120,272). Al tempo del Commemoratorium c’era ancora la diocesi del Tabor presieduta dal vescovo Teofane ed esistevano quattro chiese. Di queste, tre erano rispettivamente dedicate al S.mo Salvatore, a Mosè e ad Elia; la quarta, causa una lacerazione del manoscritto originale, resta anonima. Kopp ha avanzato l’ipotesi che si trattasse della chiesa dedicata a Melchisedec.

Nel 969 la Palestina passò dalla dominazione dei califfi Abbasidi a quella dei Fatimiti di Egitto. Approfittando del fatto che i Fatimiti trovavano difficoltà nell’ambiente arabo, l’imperatore di Bisanzio Giovanni Zimisce nella primavera del 975 mosse verso la Palestina. Da Damasco la sua grande armata scese in Galilea, prese Tiberiade e Beisan e poi arrivò fino ad Acri. In una lettera indirizzata ad Ashod III di Armenia Zimisce scrive: Essendo andati al Monte Tabor, salimmo al posto dove il Cristo nostro Dio fu trasfigurato. L’obbiettivo della Crociata bizantina, che anticipava di 124 anni le Crociate latine, era naturalmente Gerusalemme. Purtroppo Zimisce non ebbe successo e la morte lo colse nel gennaio del 976 prima che potesse ripetere l’impresa.

L’EPOCA CROCIATASappiamo da Guglielmo di Tiro che Tancredi, non appena nominato principe di Galilea, si affrettò a restaurare le chiese di Nazaret, di Tiberiade e del Tabor, dotandole riccamente. Nel 1102 Saewulf notò che sulla cima del monte “restavano ancora tre antichi monasteri, uno in onore di nostro Signore Gesù Cristo, un altro in onore di Mosè ed un terzo, poco distante, in onore di Elia”.

Gli studiosi si domandano se Tancredi fondò una abbazia e la affidò ai Benedettini, o se si limitò a ripristinare una abbazia già esistente. In altri termini, se i religiosi che occupavano il Tabor all’inizio della prima Crociata erano tutti Benedettini o appartenevano anche ad un ordine orientale. Un atto del 1101 sembra sostenere la prima ipotesi: in esso si dice che Tancredi rese all’abate Gerardo della chiesa del S.mo Salvatore sul Tabor quando l’abbazia aveva posseduto per il passato, quae antiquitus possederat. Con ogni probabilità i possedimenti dei Benedettini erano stati confiscati a seguito della Crociata di Zimisce. Sta di fatto che nel 1101 i Benedettini erano sul Tabor. Un’altra domanda alla quale gli studiosi hanno cercato di rispondere concerne il tempo in cui i Benedettini del Tabor abbracciarono la regola di Cluny. Alcuni ritengono che ciò sia avvenuto prima del 1101; altri pensano al 1130. Questi ultimi autori si basano sulla data di una lettera inviata da Pietro il Venerabile, eletto nono abate di Cluny, nel 1122, all’abate del Tabor, anche lui di nome Pietro, in cui lo scrivente si rallegra di aver appreso da un frate pellegrino che la comunità del monte era cluniacense (PL 189, 266). D’altra parte un manoscritto del XV sec., conservato un tempo nel convento dell’Ara Coeli a Roma diceva che i monaci uccisi nel 1113 erano cluniacensi tedeschi.

Baldovino I approvò le donazioni di Tancredi e, nel 1107, ne aggiunse delle altre a favore dell’abbazia “sul monte santo”. I possedimenti dei Benedettini erano veramente notevoli: 34 villaggi (alcuni di proprietà effettiva, altri di proprietà promessa) nella Bassa Galilea, specialmente nelle terre circostanti il monte, e 22 villaggi nella valle del Giordano o oltre il Giordano. Le decime spettanti all’abbazia riguardavano non soltanto i raccolti ed il bestiame, ma anche il bottino di guerra.

Nel frattempo (1103) papa Pasquale II aveva conferito all’abate Gerardo ed ai suoi successori il titolo di arcivescovo di tutta la Galilea e di Tiberiade con il diritto di indossare il pallio e di usare la bolla di piombo. Inoltre, Pasquale II aveva messo il monastero e tutti i suoi beni sotto la diretta protezione della S. Sede.

In un primo momento quindi, quando le diocesi di Nazaret e di Tiberiade non erano state ancora fondate, l’abate del Tabor ebbe giurisdizione episcopale sulla Galilea. Verso il 1107-1109 l’antica sede metropolitana di Beisan fu trasferita a Nazaret. Ciò provocò un attrito fra l’abate Gerardo ed il vescovo Bernardo per la definizione delle competenze. Nel 1112 la disputa fu composta a favore di Nazaret da Gibelino, vescovo inviato dalla Santa Sede, con il consenso del clero e del re Baldovino I. L’abate manteneva il titolo di arcivescovo ed il diritto al pallio ed alla bolla ma l’abbazia non ricevette più tutte le decime dei villaggi. Una frase di Guglielmo di Tiro sembra accennare ad avvenimenti spiacevoli. Dopo aver ricordato le donazioni fatte da Tancredi alle chiese di Nazaret, di Tiberiade e del Tabor, lo storico aggiunge che tali santi luoghi ne persero una parte non piccola causa le frodi e le calunnie dei principi.

Gli edifici di questo periodo sono descritti da Daniele: “Sul punto più alto, dal lato orientale, c’è un luogo elevato, come un monticello di pietre che termina a cono: è quello il luogo della Trasfigurazione, Vi si vede una bella chiesa dedicata alla Trasfigurazione e un’altra, a fianco, a nord della prima, dedicata a Mosè e ad Elia. Il luogo della santa Trasfigurazione e circondato da solidi muri di pietra con porte di ferro. Era un tempo sede vescovile ed ora è un monastero latino”.

Nel 1113, durante la contro-crociata turca, Malduc atabeg di Mossul invase la Galilea. Baldovino I ordinò ai baroni di accorrere immediatamente ma non li aspettò e con le sue sole forze sconfisse Malduc a Tiberiade. 1 Turchi piegarono verso il Tabor e, a loro volta, ebbero la meglio sui Crociati prima di ritornare alla loro patria. I Turchi massacrarono tutti coloro che si trovavano nell’abbazia: 72 persone, fra monaci, servitori e rifugiati. Il martirologio del benedettino Gabriel Bucelinus (XVII sec.) ricorda le vittime il 4 maggio; i resti non sono mai stati reperiti.

I Benedettini non tardarono a ristabilirsi sul monte: nel 1115 il nome dell’abate Raimondo appare su un atto di donazione da parte del conte calabrese Riccardo, il quale concedeva al cenobio del S.mo Salvatore di Monte Tabor vari possedimenti in Occidente. Per proteggersi contro nuovi attacchi, i Benedettini fortificarono il loro convento e vi installarono una guarnigione di Turcopoli.

La vita dei religiosi sul monte continuò tranquilla per un certo numero di anni. Nel 1120 l’abate Pietro partecipò al concilio di Nablus; nel 1146 Eugenio III confermò all’abate Ponzio ed ai suoi successori i privilegi concessi da Pasquale II; nel 1169 l’abate Bernardo venne nominato vescovo di Lidda; un atto del 1175 fu firmato da 12 monaci i quali - secondo Gariador - costituivano probabilmente tutta la comunità benedettina allora residente sul Tabor.

Quando Phocas visitò il monte santo nel 1177 esistevano un convento greco e due conventi latini. Di questi ultimi, uno sorgeva sulla cima, dove il Signore si era trasfigurato, e ospitava moltissimi monaci. Il luogo della Trasfigurazione era circondato da una transenna di metallo e il punto dove avevano posato i piedi del Signore era contrassegnato da una pietra rotonda straordinariamente candida, sulla quale era incisa una croce.

Nella seconda metà del XII sec. si parla nuovamente di eulogie provenienti dal Tabor. Giovanni Diacono, canonico del patriarchio lateranense elencò, fra le varie reliquie conservate al Laterano nella chiesa di S. Lorenzo, lapis in quo Dominus transfiguratus est in monte, pietra sulla quale il Signore si trasfigurò sul monte (PL 78,1390).

Una invasione di Saladino ruppe la pace e fu il preludio della fine. Nel 1183, mentre i Crociati lo tenevano in scacco ad Ain Gialud, Saladino mandò distaccamenti a saccheggiare il paese. Un gruppo salì sul Tabor e devastò il monastero greco. Guglielmo di Tiro, che riferisce questi avvenimenti, ci dà il nome del monastero: S. Elia. I religiosi greci fuggirono e di loro si sentirà parlare di nuovo, crediamo, nel 1737. 1 Saraceni attaccarono anche l’abbazia benedettina. Le fortificazioni, i Turcopoli e il coraggio dei monaci, dei servitori e dei rifugiati salvarono sia il convento che la chiesa.

I Benedettini compresero che era necessario pensare al futuro. Dopo l’incursione, l’abate Bernardo Il del Tabor e l’abate Folco di S. Paolo di Antiochia, con il consenso dei confratelli, firmarono una convenzione in virtù della quale le due comunità si impegnavano ad accogliersi a vicenda in caso di espulsione.

I Benedettini avevano visto giusto. Appena quattro anni dopo Saladino attaccò di nuovo i Crociati e li sconfisse sui Corni di Hattin. Le sue truppe salirono nuovamente al Tabor e compirono l’opera iniziata durante la loro precedente spedizione. I Benedettini abbandonarono il monte; non sappiamo se alcuni andarono ad Antiochia; è certo che almeno l’abate e una parte della comunità si ritirarono ad Acri in una delle proprietà dell’abbazia, con ogni probabilità la chiesa del S.mo Salvatore.

Nel 1204 i Crociati conclusero una tregua con il sultano el-Adel, fratello di Saladino. Appena scaduto il termine, el-Adel iniziò a costruire sul Tabor una potente fortezza. La data precisa è indicata in una delle iscrizioni arabe reperite fra le macerie: 5 du lhiddsha 609, 20 maggio 1212. L’opera fu continuata da Muazzam Isa, figlio di el-Adel, che era stato associato al governo. La chiesa della Trasfigurazione e l’abbazia benedettina sparirono quasi completamente sotto le costruzioni saracene.

La fortezza, con le sue mura massiccie e le sue numerose torri, era un capolavoro dell’arte militare del tempo. Essa dominava il territorio circostante come un’aquila pronta a calare sulla preda, impediva ai Crociati di riconquistare la Galilea e chiudeva loro la via per Gerusalemme. Ben protetta anche da un fossato, la fortezza stendeva un tentacolo verso est: contiguo all’antico eremitaggio, era stato costruito un posto di guardia. Consapevoli di essere in stato di inferiorità, i Franchi non reagirono.

Reagì papa Innocenzo III indirizzando nel 1213 un messaggio solenne a tutta la Cristianità: I Saraceni hanno costruito sul Monte Tabor, proprio sul posto dove il Cristo si è manifestato nella sua gloria, una fortezza destinata a completare la rovina del nome cristiano. Minaccia la città di Acri e per mezzo di essa i Saraceni sperano di distruggere quello che resta del regno di Gerusalemme, perché quell’infelice relitto è sprovvisto di denaro e di soldati. All’apertura del IV Concilio Lateranense, 11 novembre 1215, Innocenzo III annunciò quindi la sua ferma decisione di iniziare una nuova Crociata. Forse sperava di guidarla lui stesso, ma morì pochi mesi dopo (16 luglio 1216).

La decisione di Innocenzo III fu confermata da Onorio III. Venne così organizzata la quinta Crociata, sotto il comando di Andrea II di Ungheria, alla quale si unirono molti principi tedeschi, fiamminghi e scandinavi. Andrea aveva fatto voto di prendere la croce su domanda del padre morente, ma non mostrava grande entusiasmo. Sollecitato dal papa parti infine nell’agosto del 1217 ed arrivò ad Acri poco dopo Leopoldo VI duca d’Austria, che era stato il primo a salpare.

In Acri si unirono ai Crociati Giovanni di Brienne re di Gerusalemme, Ugo I di Lusignano re di Cipro, i Templari ed i Cavalieri di S. Giovanni. Il Consiglio di guerra, riunitosi a fine ottobre 1217, decise di attaccare la fortezza. Dopo aver spiegato le loro ingenti forze nella valle di Esdrelon ed aver fatto retrocedere el-Adel, i Crociati si diressero verso il Tabor a fine novembre e si accamparono sur le ruissel du Cresson, una delle sorgenti di Uadi el-Bireh. Per tentare di prendere la fortezza essi dovevano salire sul monte ogni giorno e il successo appariva estremamente improbabile perché i fitti boschi impedivano loro di trasportare le macchine da guerra. Ai primi di dicembre, grazie ad una fitta nebbia, i Crociati arrivarono non visti alla porta della cittadella, tanto vicini che con le loro lancie potevano toccare le mura. Malgrado il valoroso comportamento di Giovanni di Brienne, furono rigettati da una improvvisa sortita degli assediati. Giorni dopo fecero un estremo tentativo: tutta l’armata salì riuscendo a portare una immensa scala che venne appoggiata alle mura. I Saraceni lanciarono fuoco greco, bruciarono la scala e inflissero grandi perdite agli attaccanti. I Franchi si demoralizzarono e, ignorando che il nemico era sul punto di arrendersi, tornarono ad Acri. Secondo alcuni autori l’assedio era durato sette giorni; secondo altri, diciassette. Andrea II, che non aveva partecipato alla spedizione perché ammalato, decise di rimpatriare.

La Crociata non ebbe risultati positivi ma, in ogni caso, la minaccia era stata utile. Melek el-Adel, comprendendo che la sua “benedetta” fortezza - come la chiamano le iscrizioni arabe - costituiva una arrogante provocazione, la fece demolire nel 1218. Da parte sua, Muazzam aveva così poca fiducia nella vittoria finale che fece radere al suolo anche le fortezze di Tibnin, di Paneas e, più tardi, di Safed, per paura di vederle cadere in mano dei Franchi. Questi, tuttavia, continuavano a versare in tristi condizioni. Unitamente ai più alti prelati latini, l’abate Andrea del Monte Tabor firmò in Acri il 10 ottobre 1220 una lettera indirizzata a Filippo II Augusto re di Francia, nella quale si parlava delle tragiche condizioni della Terra Santa e si chiedeva aiuto per Giovanni re di Gerusalemme, che era in grande povertà.

Malgrado tutto le proprietà che l’abbazia aveva non dovettero essere confiscate e una comunità di religiosi vi si stabilì poco dopo la demolizione della fortezza. Il geografo arabo Yakut, che scriveva nel 1225, dice che sulla sommità del Tabor c’era una chiesa grande e solidamente costruita e che a sud del pianoro si trovava Deir et-Tajalla, il convento della Trasfigurazione. Qui infatti, precisa Yakut, “si dice che Gesù - la pace sia con lui - fu trasfigurato in presenza dei discepoli”.

Circa i religiosi, secondo Bonifacio da Ragusa sarebbero stati i re di Ungheria ad inviare sul Tabor un grande numero di monaci ungheresi dell’ordine di S. Paolo primo eremita. Forse, pensava Meistermann, era stato Andrea II, per riparare in qualche modo allo scacco subito, e forse quei religiosi officiavano il posto, con l’autorizzazione e sotto la giurisdizione dei Benedettini.

Durante la sesta Crociata, nel 1229 Federico Il e Melek el-Kamel firmarono una tregua durevole dieci anni, grazie alla quale il regno crociato veniva restaurato quasi completamente. Alcuni ritengono che sia stato Federico II a ricostruire una chiesa latina sul Tabor e ad affidarla ai monaci ungheresi. La tregua fu prolungata per altri cinque anni ed ebbe termine con l’invasione dei Turchi Khuwarizmi.

Luigi IX di Francia, dopo le disastrose battaglie egiziane, che avevano costato la vita a metà dei membri della settima Crociata, trascorse quattro anni ad Acri (13 maggio 1250 - 24 aprile 1254) e, giocando di diplomazia, riuscì a mantenere la pace. Accompagnato dalla moglie, là coraggiosissima regina Margherita, il santo re salì in pellegrinaggio al Tabor nel 1251, la vigilia dell’Annunciazione.

Il 10 aprile 1255 papa Alessandro IV indirizzò al Gran Maestro Guglielmo di Castronovo ed ai fratelli dell’ordine di S. Giovanni una bolla che in sostanza diceva: I vostri meriti ci inducono ad accogliere la vostra richiesta. Nella vostra petizione ci facevate presente che il monastero del Tabor è stato distrutto dai nemici di Cristo e che non si può sperare che l’abate e i monaci possano restaurarlo. Essendo molto probabile che i Saraceni vi erigano delle fortificazioni, ci avete pregati di intervenire. Pertanto… sapendo che voi lottate incessantemente con tutte le forze contro i nemici di Cristo, vi concediamo il predetto monastero, con tutti i relativi possedimenti, i diritti e le decime.

Alla concessione seguivano le clausole: Se fra Cristiani e Saraceni ci sarà una pace o una tregua continua, entro dieci anni dall’aver preso possesso del luogo costruirete una fortezza e ci manterrete 40 cavalieri sempre in armi per la difesa del nome cristiano. All’abate ed ai monaci benedettini superstiti darete il necessario per vivere, a giudizio dell’arcivescovo di Tiro e dell’abate di S. Maria della Valle di Giosafat, che dimora in Acri. Per ottenere la concessione gli Ospitalieri avevano versato 1100 bisanti.

Nei due anni seguenti, su richiesta del Gran Maestro dell’Ordine, Alessandro IV emise altre bolle, in sostituzione di quelle dì Pasquale II e di Eugenio III, rovinate dal tempo, confermando all’abate del Tabor il titolo di arcivescovo con diritto di portare il pallio.

Alcuni Benedettini furono contenti della decisione. Circa un anno dopo il passaggio della proprietà, i monaci Garino, Michele e Pietro scrissero al papa ringraziandolo perché gli Ospitalieri avrebbero provveduto a fortificare il luogo. Altri Benedettini sollevarono delle difficoltà e nel 1257 Alessandro IV ordinò all’abate di S. Maria della Valle di Giosafat di aiutare gli Ospitalieri ad ottenere i beni ed i privilegi connessi al convento del Tabor se necessario lanciando la scomunica, si opus sit via excommunicationis usus.

I Cavalieri di S. Giovanni restarono padroni del Tabor solamente per otto anni e quindi dovettero lasciarlo a causa del loro comportamento.

All’inizio del 1263 Baibars Bundukdari attaccò i Franchi. Giovanni di Ibelino conte di Giaffa e Baliano di Ibelino conte di Arsuf si rassegnarono ad accettare le condizioni del sultano mamelucco, una delle quali riguardava lo. scambio dei prigionieri. L’8 aprile i rappresentanti del governo di Acri andarono a parlamentare con Baibars nel suo accampamento sul Tabor. I Templari e gli Ospitalieri rifiutarono di restituire i loro prigionieri per non perdere mano d’opera gratuita. Baibars stesso fu indignato da una simile risposta e interruppe le trattative. I Franchi persero - oltre al Tabor - Giaffa, Arsuf, Cesarea e Safed.

Il 20 agosto 1263 papa Urbano IV indirizzò a S. Luigi IX l’epistola Vocem Terroris, nella quale denunciava le distruzioni fatte da Baibars a Nazaret, a Cafarnao, sul Tabor e in tutti i possedimenti cristiani fino alle vicinanze di Acri, et in tota Christianorum terra usque ad portas Acconis. Luigi prese per la seconda volta la croce nel 1267 ma la morte gli impedì di arrivare al monte santo e l’ottava, e ultima, Crociata, non portò ad alcun risultato.

La cima del Tabor non fu che un oceano di pietre sul quale si alzarono per centinaia di anni, come una piccola onda solidificata, le rovine venerate. Alla metà del XVII sec. anche la piccola onda si appiattì.


L’EPOCA POST-CROCIATAIl Tabor non venne peraltro dimenticato: la tradizione dell’avvenimento evangelico continuava a richiamare i pellegrini. Nella sezione “Il Culto sul Tabor” abbiamo riportato le cronache relative alle devozioni, ora diamo notizie generali e sui monumenti superstiti.

Burcardo, che salì al Tabor venti anni dopo l’intervento di Baibars, vide le rovine di tre tabernacoli o chiostri, di palazzi, di torri e di edifici diventate tane di belve. Ricoldo di Monte Croce (1294) lesse il Vangelo piangendo per tanta desolazione.

Alcuni visitatori, fidandosi di guide inesperte o raccogliendo antiche credenze corrotte al punto di essere irriconoscibili, collocarono sul Tabor avvenimenti disparati.

Maundeville e Boldensel, in Terra Santa rispettivamente nel 1322 e 1332, parlano della scuola del Signore, Schola Domini, dove Gesù aveva insegnato ai discepoli rivelando loro i segreti del cielo. La Grotta degli Insegnamenti, detta anche del Pater Noster, si trova sull’Oliveto. Maundeville aggiunge: “Su quel monte e nel posto della Trasfigurazione, nel giorno del giudizio quattro angeli suoneranno quattro trombe e resusciteranno tutti gli uomini che hanno patito la morte da quando il mondo fu creato alla vita. E verranno in corpo ed anima al giudizio, in presenza del volto di Dio, nella Valle di Giosafat. E sarà nel giorno di Pasqua, il giorno della Resurrezione di nostro Signore”. Lo spagnolo Oliver (1464) vede dall’Oliveto “la strada per il Monte Tabor che è il luogo dove fu creato Adamo e dove c’è il sepolcro di Abramo e di Sara” . Von Harff, alla fine del XV sec., riprende: “I Cristiani siriani, giacobiti, georgiani, abissini e altri che abitano nella regione, ritengono che Adamo, il primo uomo, abbia infranto il comando di Dio su questo Monte Tabor e che alla fine dei tempi quattro angeli annunceranno il giorno del giudizio da questo monte”.

Il primo pellegrino che dica qualcosa di solido circa le rovine è Niccolò da Poggibonsi nel 1345. Le fonti contemporanee alle costruzioni, che ci sono pervenute, non descrivono le strutture o le decorazioni e i recenti rapporti archeologici riguardano soltanto fondamenta e pavimenti. Le cronache che parlano degli edifici hanno una importanza speciale in quanto ci fanno partecipare alla realtà e alle peripezie del passato.

Leggiamo Poggibonsi: “Il detto monte si è molto alto e grande, e quasi tondo; e in cima Si v’è un piano, chè ivi fu una Terra, ma ora è guasta; e al mezzo si à una chiesa, e, nel mezzo della chiesa detta, si fu una tomba [volta tonda] sopra ogni edifizio elevata. Et ivi, il nostro Signore Giesù Cristo, volendo mostrare la gloria sua a gli Apostoli, ivi dov’è la tomba, sì si trasfigurò, e apparve subito Moisè e Elia, e parlavano con lui; e la voce fu udita da celo, e così si è scritto, di lettere d’oro, su nella detta tomba, e dicono così: hic est filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui, ipsum audite. Et in terra si sono le forme, come sbigotito santo Pietro, e santo Giovanni, e santo Iacobo caddono in terra, per lo grande splendore; e dove santo Pietro cadde, sì v’è scritto così: Domine, bonum est nobis hic esse, etc. La chiesa si è quasi guasta, se non se la tomba”. Restava quindi la cripta, con pitture e iscrizioni musive su una parete e sul pavimento, mentre la parte superiore dell’edificio era diroccata.

Gli avanzi delle costruzioni sopravvissero ancora per circa un secolo e mezzo. Nel 1485 Suriano aggiunge qualche particolare architettonico: “Su Zebel Tubar [ ... ] fo facta una chiesa cum tre tribune, a modo de tre tabernacoli apizati insiema. E dove Christo se transfigurò fo facta una scala de marmaro fino, de octo gradili, larga braza quatro, et in cima della predicta scala è una pietra posta a modo de uno altare”.

A Suriano capitò quello che già tanti pellegrini avevano sperimentato qui e altrove: “E, finito le misse, fomo assaltati da ladri che erano nascosti in quelle charabe, per haver veduto el calice et una pianeta nova de damaschino chremisino. Tamen non ce fecero dispiacere, per esser nui ben accompagnati ma mangiamo insieme pane et sale”.

Passano altri 60-70 anni senza notizie degno di nota e quindi Bonifacio da Ragusa (1552) scrive: “Sulla sommità del monte [ ... ] c’è una chiesa con tre cappelle. Nel luogo dove il Cristo fu veduto nella gloria c’è la cappella maggiore, a destra c’è la cappella dedicata a Mosè ed a sinistra quella dedicata ad Elia [ ... ] Nella cappella maggiore, per grazia di Dio, si conserva l’immagine del Salvatore trasfigurato [ ... ] che è elegantissima. Mosè, latore della legge, è dipinto sulla parete destra ed Elia sulla sinistra”.

Zuallart ci spiega la ragione per cui le intemperie non avevano completato l’opera di Baibars: “No ci resta piu altro, che le dette tre capelle, le quali gl’Infideli occupano, & come Moschee mantengano di tetto, per preseruarli, che non si guastino dalle pioggie, & ingiuria del tempo”. Ma mentre il tetto conservava i muri gl’Infedeli avevano raschiato le “antichissime pitture” della cappella centrale e Zuallart non ne vide che i resti. Zuallart scriveva nel 1586; Castela, che visitò il Tabor sedici anni dopo, conferma la trasformazione delle tre cappelle in moschee ; Levaillant notò ancora i lembi delle decorazioni nel 1613.

Il viaggiatore romano Della Valle nel 1616 trovò: “reliquie molto riguardeuoli di vna gran Chiesa, e di vn Monasterio, per quanto posso immaginarmi, che era fabricato nel luogo, doue Nostro, Signore si trasfigurò”, e fu sorpreso dalle biade coltivate sulla cima del monte. “Ma vidi poi, che il monte là sopra era abitato; e che fra quelle rovine di fabriche antiche, viueuano, non sò come sequestrate dal commercio del Mondo, alcune poche e miserrime famigliuole, delle quali, doueua essere il seminato, che certo n’ebbi compassione a vederle in tal luogo; particolarmente certe donnicciole meze nude, e certi figliuoletti di quattro ò cinque anni, che vidi andar correndo frà quegli alberi, a punto come gatti seluatichi”. Della Valle è l’unico cronista che, a quanto ci consti, parli di un insediamento permanente sul monte.

I FRANCESCANI

Nel 1632 Roger tracciò una pianta degli edifici sacri esistenti , la prima che ci sia pervenuta. Roger conosceva molto bene Fakhr ed-Din “perché mi ha onorato della sua confidenza per tutto il tempo che sono rimasto in Terra Santa”. Fakhr ed-Din era amico non soltanto di Roger ma dei Cristiani in generale.

DAL 1631 AL 1854

Roger corredò il suo schizzo con una breve descrizione: “Tre piccoli oratori o cappelle con copertura a volta, l’uno contiguo all’altro, due dei quali sono lunghi nove piedi e larghi tre o quattro. Quello centrale che è il posto dove Gesù si trasfigurò, non è lungo che sette passi. Questi tabernacoli o cappelle si trovano sul punto più alto del monte, sul lato. verso mezzogiorno”.

Le Croniche di p. Verniero, redatte nel 1634, riferiscono le intenzioni dei Francescani divenuti padroni del Tabor : Essi pensavano di introdurre “ad habitarlo e coltivarlo i nostri torcimanni cattolici di Betthalem” [Betlemme] e intendevano erigere “un hospitio per commodità de nostri pellegrini”. Tuttavia, “perché sì dubitava degli Arabi, non vi si fabricò chiesa né hospitio”.

In effetti i Musulmani erano molesti. Surius, nel 1644, riferisce con meticolosità: “Ci costò molta fatica il vedere questi tre tabernacoli, che esistono ancora per provvidenza divina, perché i Mori hanno ostruito e bloccato l’ingresso per impedire la devozione dei pellegrini. Ciò nonostante togliemmo la terra per quel tanto che bastava ad entrare, strisciammo attraverso una porticina a settentrione e arrivammo in un corridoio lungo dodici passi e largo quattro, dove accendemmo il fuoco con un acciarino e, ciascuno tenendo una candela, passammo per una porta a mezzogiorno nei tre tabernacoli, in una grande cappella a volta che un tempo era stata ben dipinta. Quello verso levante e largo sette piedi e tre pollici, quello verso mezzodì è largo cinque piedi, e il terzo verso ponente è largo sei piedi e mezzo. Quello centrale è edificato nel posto dove nostro Signore si trasfigurò”. Crediamo che Surius sia stato l’ultimo pellegrino a notare le decorazioni della cripta crociata.

Ricoldo di Monte Croce avrebbe pianto di nuovo nel vedere, come vide Doubdan nel 1652, “quasi tutto sepolto nella terra e pieno di immondizie”. Anche Doubdan fece uno schizzo e una descrizione del santuario: “Si entra in un piccolo vano composto da quattro nicchie in croce, ciascuna larga circa quattro piedi [ ... ] Tutto il luogo e attualmente interrato e tanto oscuro che si deve necessariamente portare un lume”. Né lo schizzo né la descrizione concordano con le precedenti notizie: i tre tabernacoli “apizati insiema” sono diventati un vano cruciforme. L’ingresso del vero santuario, ostruito, era stato perso di vista probabilmente a causa della vegetazione che lo mimetizzava e i pellegrini inconsapevoli, trovato un altro andito, lo seguivano ed arrivavano in uno degli ambienti della fortezza saracena, dove mani pie avevano sistemato degli altari. Tale luogo fu la meta delle visite fino al 1876.

Besson seppe vedere qualcosa di significativo anche nella cappella di fortuna: “Ebbi il bene di dire la Messa sull’altare di S. Elia, il quale ancora vive dopo tanti secoli, e fu santificato prima di morire, il cui tabernacolo è a sinistra entrando e a destra c’è quello di Mosè e nel centro quello di Gesù, come il centro al quale convergono tutte le linee e il compimento di tutte le leggi”.

Di anno in anno anche l’ambiente saraceno si deteriorò sempre più. In Nau (1668) leggiamo: “Oggi resta soltanto una cappella interrata dove si entra per tre porte che non si chiudono [ ... ] non è lunga più di nove o dieci piedi e larga sette o otto.

Sono state fatte tre nicchie dove si crede che stessero nostro Signore, Mosè ed Elia [ ... ] Secondo la disposizione dei tabernacoli nostro Signore aveva il viso rivolto a nord, Mosè stava alla sua destra ed Elia alla sua sinistra”.

Laffi (1679) e Le Bruyn (1681) definirono la cappella “una grotta”. Le Bruyn, mentre quelli che erano con lui celebravano la Messa, sostò davanti alla porta e disegnò le rovine viste dall’esterno.

Le testimonianze proseguono tristi e deprimenti. Nel 1710 Cozza vide che i Francescani, per le celebrazioni, usavano altari portatili. Pococke (1737) aggiunse alla descrizione della grotta una notizia interessante: “Dall’altro lato, un convento dell’ordine di S. Basilio, dove i Greci hanno un altare e compiono il loro servizio divino per la festa della Trasfigurazione”. Si trattava dell’antico monastero abbandonato dai Greci nel 1187 che, come dirà Mariti nel 1760, continuava ad esser chiamato di S. Elia.

I Francescani erano diventati padroni del Tabor 136 anni prima e avevano tentato varie volte di far valere i propri diritti. Poco dopo la concessione, p. Diego di S. Severino incaricò p. Giacomo da Vandôme. guardiano di Nazaret, di costruire una chiesa sul monte ma i Musulmani dei dintorni ostacolarono il progetto. Quattro anni dopo la morte di Fakhr ed-Din, i Francescani chiesero al Sultano il permesso di risiedere sul Tabor e lo ottennero nel 1641 per mezzo dell’Ambasciatore di Francia e del Bàilo di Venezia. Nel 1656 essi ricevettero l’autorizzazione di costruire in tutte le loro proprietà della Terra Santa. Essendo stato riferito al sultano (1667) che i Religiosi non potevano usufruire sul Tabor di tale privilegio, il sultano ordinò al pascià di Safed di punire chi li ostacolava. Sei anni dopo, p. Claudio da Laude Pompeia Custode di Terra Santa, tramite p. G. B. da Lagomarsino commissario a Costantinopoli, chiese l’autorizzazione di mandare due o tre religiosi a vivere sul monte. La domanda cadde nel nulla. Nel 1763, il Custode di Terra Santa p. Paolo da Piacenza vedendo che era impossibile realizzare il sogno di una nuova costruzione, decise di riparare almeno quanto esisteva.

I restauri, curati da p. Giovanni Lorenzo guardiano di Nazaret. furono di modesta entità. Giuseppe Antonio da Milano, in pellegrinaggio nel 1771, lasciò scritto: “Nella parte sua [del Tabor] superiore, poco discosto dal lato suo occidentale e quasi nel mezzo. sorge fra grandi rovine una cappella, lunga cinque passi e larga due, la cui fronte guarda a mezzogiorno; ha un misero altare [ ... ] ha inoltre da una parte un piccolo adito quadrato con tre nicchie, e queste ricordano le parole di Pietro al suo Maestro divino: Faremo tre tende. A questa cappella, alla quale Lamartine non dedicò neanche una parola, alcuni preferivano lo stupendo ambiente naturale, come De Géranib, il quale si confessò ai piedi di un albero ed ebbe la fortuna di ricevere la Comunione durante la Messa che fu detta sotto la volta del cielo.

Mentre l’ostilità dimostrata ai Frati dai Musulmani perdeva di mordente ed i Frati esercitavano almeno il diritto alla proprietà con i pellegrinaggi e le celebrazioni, si presentavano altre difficoltà. I Greci ortodossi occuparono a poco la parte nord della cima, che venne infine tagliata in due da un muro; il Patriarcato Latino di Gerusalemme non dimostrava grande comprensione e negava l’autorizzazione di costruire. Nel primo caso i Francescani, per amore del quieto vivere, sopportarono; nel secondo, si rivolsero a Roma e la Congregazione di Propaganda decise, a suo tempo, in loro favore.

DAL 1854 AD OGGI

Il 1854 segnò una svolta nella storia del Tabor: le rovine incominciarono ad essere studiate e, poco dopo e lentamente, i Francescani incominciarono a costruire.

Le prime scoperte furono fatte da Melchior De Vogüé, pioniere della archeologia palestinese, il quale salì al Tabor appunto nel 1854 e con i suoi occhi esperti individuò fra le macerie e le querce i resti di due edifici sacri. Gli uni, nella proprietà greco-ortodossa erano quanto rimaneva di una piccola cappella larga quattro metri e lunga al massimo cinque o sei, con abside semi-circolare ad est. I muri romani, costruiti con grande cura, erano rivestiti all’interno di stucco bianco sul quale si distinguevano tracce di viticci dipinti in rosso. Il pavimento musivo era di grosse tessere bianche e nere che formavano un grande cerchio e delle losanghe. De Vogüé vide nelle rovine un oratorio del IV-V sec. e non esitò a considerarlo uno dei più antichi edifici religiosi della Terra Santa.

Gli altri resti, nella proprietà francescana, appartenevano ad una costruzione composta da alcuni piccoli vani sotterranei, con tetto a volta, ai quali si accedeva per una scala di pietra. Secondo De Vogüé si trattava della cripta rovinata di una chiesa crociata che doveva avere tre navate e tre cappelle. Lo studioso la datò all’inizio del XII sec. De Vogüé si basava su quanto era visibile; gli scavi effettuati in seguito consentirono una maggiore, ma non assoluta, precisione e le opinioni degli esperti furono diverse.

Il 6 agosto 1858 la comunità latina di Nazaret, salita al Tabor con i Frati per la festa della Trasfigurazione, decise di fabbricare una cappella e due o tre stanze per i religiosi. I lavori cominciarono il giorno seguente in un luogo a un tiro di pietra a nord dell’oratorio di fortuna. Scavando per gettare le fondamenta, i volenterosi liberarono tre ambienti, uno dei quali con divano all’uso arabo e un altro più grande (9,5 X 4,75 m.), con la volta ben conservata. Trovarono anche un posto dove si alzavano cinque pilastri sormontati da archi. L’opera fu interrotta a causa di una epidemia, e ripresa la primavera seguente. Il p. Angelo Veneziani guardiano di Nazaret aveva trovato un collaboratore straordinario in Luis Kalil, dragomanno del convento di Nazaret, il quale iniziò a restaurare i tre vani scoperti. Causa altre difficoltà, i lavori dovettero essere interrotti di nuovo.

Nel frattempo erano arrivati aiuti finanziari. Ad una prima donazione inviata dal canonico Strauss, presidente della Società del S. Sepolcro di Colonia, se ne aggiunse un’altra di una contessa viennese. Fratelli laici muratori vennero mandati sul monte a recintare la proprietà francescana e a continuare la riparazione degli ambienti antichi. Queste strutture, appartenenti al monastero benedettino, vennero demolite nel 1921-1922 perché impedivano di vedere da lontano la nuova basilica.

Contemporaneamente i lavori di scavo avevano liberato almeno in parte la primitiva chiesa della, Trasfigurazione e totalmente una cappella crociata. Ottenuta l’autorizzazione del Patriarcato di erigere un nuovo santuario, p. Barnaba di Appignano, guardiano di Nazaret, propose di restaurare la chiesa. L’idea fu accantonata anche a motivo dell’opinione espressa da Guérin, sacerdote francese esploratore ed archeologo, il quale aveva consigliato ai Frati “di conservare intatte e visibili, quando realizzeranno questo progetto, tutte le parti ancora esistenti dell’antica chiesa, e sopra tutto di mantenere all’abside il suo carattere primitivo, segno della sua antichità e, di conseguenza, dell’antichità della tradizione relativa al vero luogo della Trasfigurazione”. La posizione dell’abside era veramente significativa. Le grandi difficoltà che gli architetti della chiesa primitiva e di quelle successive avevano dovuto risolvere per mettere il capocroce proprio in quel punto, a piombo sulla scarpata est del monte, ed il fatto che il pavimento seguiva i capricci del suolo, dimostravano la chiara intenzione di porre l’abside in corrispondenza del posto venerato.

A Guérin dobbiamo una buona descrizione delle rovine. I Greci ortodossi avevano rintracciato una seconda e più grande abside immediatamente a nord dei resti segnalati da De Vogüé. Risultava quindi che essi non appartenevano ad un oratorio a sé stante, ma costituivano un’altra navata di una chiesa a tre navate, l’antica chiesa di S. Elia. I Greci ortodossi avevano alzato un nuovo santuario, lungo 24 m e largo 15 m che non seguiva la pianta primitiva.

Anche la seconda costruzione segnalata da De Vogüé risultava più complessa: si trattava di una chiesa a tre navate, lunga 36 m e larga almeno 16 m Sotto la navata centrale esisteva una cripta lunga 30 m e larga 6 m, alla quale si scendeva per 12 gradini parzialmente tagliati nella roccia. Nell’estremità est della cripta c’era un altare mezzo rovinato. Gli edifici soprastanti, diceva Guérin, erano stati più volte abbattuti e riedificati ma la cripta, in parte scavata nella roccia e in parte costruita con pietre molto regolari, doveva aver appartenuto al santuario dedicato al S.mo Salvatore nei primi secoli della Chiesa. Nell’abside centrale restavano i ricorsi inferiori del muro che Guérin giudicò romano-bizantino; a fianco dell’ingresso (lato sud) si vedeva una cappella con pavimento musivo a tessere multicolori e una fossa sepolcrale tagliata nella roccia, sormontata da un arco crociato. Al momento del ritrovamento, la tomba conteneva resti umani.

Questa cappella fu in seguito confusa da alcuni autori con le rovine che De Vogüé aveva definito un oratorio. L’equivoco può esser stato causato dalle dimensioni simili dei due piccoli edifici, sebbene il pavimento musivo fosse differente.

Ad una ventina di metri, ad ovest dell’ingresso era stata portata alla luce un’altra piccola cappella di struttura crociata. Sia la chiesa che la cappella si trovavano nel recinto del grande monastero benedettino.

Circa la fortezza saracena, Guérin notò considerevoli resti di torri, di cortine e di portali con arco a sesto acuto. Le pietre erano sia del tutto liscie che a bozza.

DOPO IL 1854. PROGETTO DEL SANTUARIOLe cose cominciarono a muoversi più rapidamente quando nel 1870 il Padre Custode di Terra Santa incaricò fra’ Giuseppe Maria Baldi di occuparsi del Tabor. Fra’ Baldi iniziò a ripulire le cisterne e a raccogliere materiali per le future costruzioni e dopo tre anni cominciò a fabbricare un salone per accogliere i pellegrini, due camere e una cucina. Nel 1875 i Francescani pensarono di sistemare ad oratorio due vani della fortezza saracena e la prima mossa fu quella di abbattere la parete divisoria. 1 vari lavori furono terminati l’anno seguente. Per ornare l’oratorio, l’arciduca Salvatore Luigi, fratello del Granduca di Toscana, inviò un quadro della Trasfigurazione oggi conservato nella grande sagrestia della basilica. Nel 1877 cominciò la costruzione di un minuscolo convento adiacente al salone e di una Casa Nova per pellegrini, un po’ più ad ovest. Nel 1879 la prima comunità francescana si stabilì sul Tabor; il conventino venne eretto a residenza nel 1888 ed il primo superiore fu p. Alfonso Dombrowski.

Nel 1889 pellegrini degli Stati Uniti, sperando di poter far riedificare la basilica, aprirono una sottoscrizione, ma le difficoltà che si frapponevano erano ancora insormontabili. Proseguirono almeno le ricerche archeologiche nel 1895-97 sotto il superiore p. Marcello Neuvillac e nel 1897-1900 sotto il superiore p. Barnaba Meistermann: vennero liberate la base di una torre saracena (est) e altre rovine del monastero benedettino (nord). Fra queste si individuarono la sala capitolare, il refettorio e la cucina.

Padre Meistermann restaurò Bab el-Haua, la porta del vento e, in vista del diritto di proprietà, fece mettere la data 1868. Inoltre, egli segnalò verso il sud del pianoro tracce di abitazioni nonché grotte sepolcrali e tombe scavate a pozzetto, tutte violate. Le giudicò case e tombe di gente povera, probabilmente del tempo di Flavio Giuseppe, sopra le quali erano state costruite le abitazioni per gli operai, al tempo di el-Adel. Padre Meistermann infine descrisse le rovine della basilica e ne tracciò una pianta. In sostanza egli riteneva che la chiesa crociata fosse sorta sullo stesso perimetro di quella romano-bizantina. La cripta, che corrispondeva al luogo tradizionale della Trasfigurazione, sarebbe stata allungata verso ovest e avrebbe costituito la confessione. Padre Meistermann notò i piedritti di un portale (ai lati del punto ‘V’ della sua piantina) e concluse che in un secondo tempo, probabilmente durante la tregua di Federico II, i muri laterali della chiesa erano stati estesi verso ovest. Le due cappelle dette di Mosè e di Elia, prima indipendenti, sarebbero state allora incorporate in un solo edificio.

Negli anni 1909 e seguenti fu sgomberato il grande fossato che proteggeva la fortezza di el-Adel sul lato est e vennero scoperti il pavimento musivo ed i ricorsi inferiori dei muri di un battistero bizantino. Contemporaneamente, in vista della grande affluenza di pellegrini, la Casa Nova fu ampliata e nel 1912 p. Roberto Razzoli, Custode di Terra Santa, e l’ing. Giulio Barluzzi, fratello delI’architetto Antonio Barluzzi, iniziarono gli studi e le pratiche per l’erezione di una nuova chiesa. La guerra italo-turca causò la sospensione delle attività e la prima Guerra Mondiale fece sentire direttamente i suoi effetti anche sul Tabor. Nell’aprile del 1915 il governatore turco di Nazaret ordinò di chiudere il conventino, nel quale lasciò come guardiano fra’ Pasquale Ege di nazionalità tedesca. Quattro mesi dopo i religiosi italiani furono deportati a Damasco. Durante una visita al monte nell’agosto del 1915, il generale Giamal Pascià prelevò diversi reperti archeologici di valore.

Il 21 ottobre 1919, in occasione del settimo centenario della venuta di S. Francesco in Terra Santa, sotto il custodiato di p. Ferdinando Diotallevi, il Cardinale Filippo Giustini Protettore dell’Ordine dei Frati Minori e Legato Pontificio, mise la prima pietra della erigenda basilica. Nello stesso anno p. Godefroy Shilling, Commissario di Terra Santa a Washington, con la benedizione di Benedetto XV, iniziò una “crociata” per raccogliere i fondi necessari.

La direzione dei lavori fu affidata ad Antonio Barluzzi, autore del bozzetto. L’architetto ci dice come arrivò alla scelta di un determinato stile: “Gli scavi archeologici avevano messo in luce un’antica cripta con scala di accesso, muri absidali di tre epoche sovrapposti con leggiere varianti di inclinazione [ ... ] Nell’insieme potè rilevarsi la traccia di una cripta centrale con chiesa superiore a tre navi di cui le laterali corrispondenti in facciata a cappella, e la centrale ad un vestibolo di accesso. Questa disposizione planimetrica, che realizzava in certo modo il voto di Pietro di costruire tre tabernacoli [ ... ] aveva una così toccante analogia con la pianta di alcune chiese del V sec. esistenti presso Aleppo, e prossime a, quella di S. Simone Stilita, da far accettare la suggestione di quell’architettura poco diffusa che può dirsi, per le sue caratteristiche principali, romano-siriaca, in quanto adotta sugli schemi del classico decadente, una decorazione orientalizzante”.

Nel 1920 il Department of Antiquities della Potenza Mandataria, temendo che le antiche pietre sparissero, mandò un ispettore ad esaminare i piani insieme all’ing. Liberato Traversa e al p. Antonio Gassi guardiano di Nazaret. Fu data assicurazione che tutti i resti sarebbero stati rispettati. Mentre gli scavi erano aperti l’ing. G. Barluzzi tracciò una pianta molto accurata sulla quale risultano chiaramente le parti romane e crociate nonché le strutture arabe.

I lavori di sterro ebbero inizio nell’aprile del 1921: 20 mila m3 di macerie e di terra vennero gettati sul pendio sud del monte ed utilizzati per creare e sostenere terrazzamenti a scopo agricolo. Al fine di rendere più agevole il trasporto dei materiali e dei rifornimenti per i 300 operai impiegati, la Custodia fece rimettere a nuovo i 12 km di strada da Affuleh ai piedi del Tabor e sostituì la vecchia mulattiera che portava alla cima con una strada carrabile. Sembra che lungo il percorso di questa fossero visibili tracce dei 4340 gradini di cui parlava Epifanio Monaco. Il necessario rifornimento idrico dovette essere assicurato dalla pianura, come era avvenuto al tempo di Flavio Giuseppe.

Nel corso delle sue indagini l’arch. Barluzzi riconobbe che il santuario cruciforme, del quale avevano parlato vari visitatori, era stato originariamente uno dei bagni turchi della fortezza, e ne rintracciò degli altri. Inoltre, sotto la parete nord della cappella ora detta di Elia, fu rinvenuta la tomba di un ecclesiastico. L’interno conteneva una salma, che si disfece subito al contatto dell’aria, alcuni lembi di seta violacea e una croce pettorale con doppio braccio traverso. Per le necessità della nuova costruzione la tomba venne murata. Una scoperta di Barluzzi, che avrebbe potuto essere sensazionale, fu la grotta sottostante la cripta. Al momento del ritrovamento le pareti della grotta erano ancora coperte da vari e accurati strati di intonaco, il che dimostrava che essa era stata un luogo di culto, con ogni probabilità un luogo di culto dei Giudeo-Cristiani. A quel tempo i Giudeo-Cristiani erano ancora praticamente ignorati; nessuno pensò ad essi né a controllare se sugli strati di intonaco ci fossero comunque dei graffiti e Barluzzi definì la grotta “un vano roccioso sotto l’altare di oscura destinazione”. Sfortunatamente le pareti della caverna presentavano inquietanti fenditure provocate forse da terremoti ed il soffitto minacciava di crollare; invece di consolidarla con pilastri, i costruttori la riempirono parzialmente con un conglomerato di terra e di pietrisco.

La basilica fu ultimata nella primavera del 1924. Non sappiamo se si tratta di un proposito o di una coincidenza: la Custodia di Terra Santa intraprese contemporaneamente la costruzione della chiesa della Trasfigurazione e di quella dell’Agonia al Getsemani e i due edifici vennero benedetti a 15 giorni di distanza l’uno dall’altro. Il nesso fra l’episodio di gloria e l’episodio di dolore fu comunque confermato anche dall’architettura.

I FRANCESCANI NEGLI ANNI PIÙ RECENTI

Dopo la costruzione della nuova chiesa, altri tre studiosi si interessarono delle rovine e due di essi tracciarono piantine. La prima pianta, di p. Antonio Gassi (1925), riprende quella di Meistermann. L’altra, di EnIart (1928), riguarda soltanto l’edificio crociato. Secondo Enlart i Crociati non ricostruirono sulle fondazioni bizantine, ma rettificarono l’orientamento della chiesa, come dimostra il fonte battesimale bizantino che è posto di sbiego rispetto al muro sud. Per questo esperto, le strutture restanti della cripta e dei muri sarebbero del XII sec.; le cappelle di Mosè e di Elia avrebbero fiancheggiato la facciata, formando probabilmente le base di due torri. Il terzo esperto, Ovadia (1970), datò la prima basilica al IV-V sec.

Realizzato finalmente il sogno della nuova basilica, i Francescani rimodernarono la Casa Nova e quindi pensarono all’attuazione di un nuovo progetto: un seminario di lettere e di filosofia. A tal fine alzarono di un piano il convento e là ospitarono gli studenti dal 1931 al 1940. La seconda Guerra Mondiale mise fine all’iniziativa quando i Francescani di nazionalità italiana e tedesca furono internati ad Emmaus-Qubeibeh. Dal 1942 al 1944 la cima del monte servì da campo di addestramento per soldati polacchi. Nel dopo guerra la vecchia Casa Nova fu chiusa ed ai pellegrini venne riservata l’ala che aveva ospitato i seminaristi. Per motivi sconosciuti, nel 1955 venne alzata a nord della porta di Casa Nova una torretta di stile medioevale, merlata e grigia.

Nel 1955 fu anche fatta un’altra scoperta. A nord della basilica, sotto il pavimento della sala capitolare del monastero benedettino, p. Antonio Berardi individuò una grotticella naturale con ingresso verso est. Interessante era una rosa di intonaco bianchissimo stesa con molta cura quasi al centro della volta. Sulle pareti si notavano quattro monogrammi, una croce a quattro punti e i resti di una iscrizione in greco, con firma dello scrivente, risalente con ogni probabilità al VI sec. Attualmente la grotta non è accessibile.

Nell’estate del 1961 fu installata un pompa elettrica che, sollevando l’acqua da una sorgente al piede sud del monte, liberava la comunità francescana dalla schiavitù delle cisterne.

L’ultimo avvenimento memorabile nella storia del Tabor è stata la visita di papa Paolo VI, il quale durante il pellegrinaggio in Terra Santa salì al monte nel pomeriggio del 5 gennaio 1964. Accolto dal superiore p. Ludovico Cigliano e dalla comunità francescana, Paolo VI pregò a lungo in ginocchio nella basilica della Trasfigurazione. Finita la meditazione, Sua Santità fu accompagnato a Casa Nova: dal terrazzo egli ammirò la valle di Esdrelon, illuminata dalla luce radente del sole che calava dietro la catena del Carmelo.

LA CIMA DEL TABOR OGGI

Salendo da Daburiyeh, dopo 5 km. di curve a uncino, si arriva alla Porta del Vento, Bab el-Haua, la porta principale della fortezza di el-Adel, che in origine era probabilmente a doppia tenaglia. Mentre non esistono che tracce molto esigue del muro di Flavio Giuseppe, le rovine della cinta saracena, discretamente conservate, corrono intorno al pianoro di cima.

All’esterno della porta dirama verso nord una stradina che conduce alla grotta di Melchisedec, nella proprietà dei Greci ortodossi. Secondo Niceforo Callisto, S. Elena fece erigere sul Tabor una chiesa nel posto in cui Melchisedec aveva benedetto Abramo (PG 146, 113). Rovine abbastanza cospicue di quello che sembra esser stato un convento si trovano immediatamente ad est della grotta. Mancano descrizioni antiche di questo complesso, che un tempo può esser stato un cenobio, e i resti devono ancora essere datati. Nel 1974 la grotta è stata restaurata e chiusa con una porta di ferro, la cui chiave è custodita dal prete greco ortodosso di S. Elia.

La chiesa di S. Elia si trova alla fine della stradina. L’edificio sacro a tre navate, ricostruito dopo il 1858, è stato decorato nel 1912 da un artista greco di nome Socrate, il quale ha dipinto nell’abside la scena della Trasfigurazione e sui pilastri le figure di Mosè, di Elia, degli Evangelisti e di altri personaggi biblici. In due absidi si vedono ricorsi di pietre antiche e, nel pavimento, sei riquadri di tessere bianche rinvenute nel terreno circostante. Delle iconi, donate dalla Russia e definite molto belle da Guérin nel 1863, ne restano apparentemente due.

L’abside identificata da De Vogüé è visibile all’esterno dell’edificio, in direzione sud. Nelle poche pietre esistenti, intonacate di bianco come sistema anti-furto, si apre un piccolo vano, originariamente chiuso da uno sportello, dove venivano conservati i vasi sacri.

Dalla Porta del Vento inizia un viale rettilineo che va verso, est, fiancheggiato da alberi fronzuti. Dopo circa 300 m, si incontra sul lato sud la cappellina detta Descendentibus, che ricorda l’ordine di non parlare della Trasfigurazione dato da Gesù ai tre discepoli. Anche di questa cappellina non abbiamo descrizioni antiche. Pare che nel 1921-1924 siano state trovate rovine bizantine, ora incorporate nell’edificio costruito da Barluzzi, che segue il perimetro antico. Il piccolo ambiente (9 m x 4 m) fu ornato per un certo tempo con una pittura che ricordava l’episodio evangelico. Ora è spoglio. Durante il mese di maggio viene talvolta celebrata la Messa. Verso sud si trovano le tombe del I sec. e a nord un cimitero detto crociato.

Oltrepassata questa cappellina, si incomincia a vedere in magnifica prospettiva la basilica della Trasfigurazione. Il viale alberato prosegue e termina in un piazzale, chiuso ad est da una cancellata al di là della quale sono visibili resti del complesso benedettino la cucina il refettorio ed una piccola cappella. A nord di questa, un corridoio con porte ad arco e rovine crociate rimaneggiate in epoche posteriori, non ancora studiate. Una epigrafe di marmo, posta sullo stipite nord della porta della cappella, ricorda l’antica tradizione relativa all’apparizione del Signore risorto (Mt 28, 16-17) ed un busto in bronzo di Paolo VI sullo stipite sud, ricorda la visita del Pontefice. La sala capitolare del monastero benedettino è visibile lungo il lato nord della basilica.

Proseguendo verso nord, all’esterno della basilica, oltre la sala capitolare ed i resti della scala che conduceva al livello superiore degli edifici crociati, si arriva ad una scaletta che scende lungo il ripido pendio est del monte. Il sentiero veramente poco agevole, che la continua, conduce alla zona dove venne rintracciato un eremitaggio trasformato in posto di guardia dai Saraceni. Lo stesso sentiero porta ad uno stretto cunicolo, aperto per motivi pratici durante la costruzione della basilica, e a quanto resta della grotta che presumibilmente fu un luogo di culto dei Giudeo-Cristiani.

Viste dall’esterno, le pareti nord e sud della basilica sono estremamente semplici, mentre il lato est è ravvivato da un gioco di masse. Le due absidi laterali rettilinee fiancheggiano l’abside centrale a semi-cerchio, ornata da due ordini sovrapposti di colonnine; sotto l’abside centrale sporge quella della cripta che, a sua volta, posa in parte su resti della fortezza di el-Adel. La struttura, che dalla base della cripta al vertice del timpano misura quasi 25 m, è sostenuta da piloni che scendono nel vallo saraceno per una profondità di 10 m.

Il lato ovest, la facciata, rispecchia fedelmente lo stile romano-siriaco scelto da Barluzzi, stile che - con il motivo delle due torri frontali - ha permesso di innestare nel corpo della chiesa i resti della cappella bizantino-crociata. Le torri, alquanto massiccie, sono alleggerite da due ordini di finestre con vetri rivestiti di pasta alabastrina, e da un terzo ordine di finestre a giorno. Scale interne conducono a due coretti corrispondenti alle navate laterali della chiesa, e ad un coro centrale più ampio per i religiosi. Nel piano superiore della torre sud sono sistemate le campane, fuse a Bassano del Grappa, dal suono profondo e armonioso.

Le torri sono collegate ad ovest da un arco di pietra scolpita e il loro corpo è unito verticalmente alla facciata vera e propria. Questa, che come le torri termina con un timpano, è parimenti alleggerita mediante tre ampi finestroni. Le basi delle torri e della facciata delimitano il nartece esterno, ai lati del quale sono visibili pietre crociate. Nel nartece si aprono tre porte di bronzo, disegnate da Tonnini, a pannelli semplici; le due laterali danno nelle cappelle che costituiscono il pianterreno delle torri; la centrale dà nella chiesa.

La cappella sud, dedicata ad Elia, è notevole sopra tutto per il pavimento musivo bizantino a tessere bianche, nere e rosse, già restaurato in epoca crociata, che è stato staccato e ricomposto in parte su un nuovo letto. Il catino absidale è decorato con una pittura che ritrae Elia fra l’olocausto che brucia ed una grossa lombata che non brucia (1 Re 18,21-40). Sul lato sud, la tomba ad arcosolio.

La cappella nord, dedicata a Mosè, è un po’ più ampia dell’altra ed ha il pavimento musivo moderno leggermente più elevato. Anche qui una pittura orna il catino absidale: Mosè, nobile e persuasivo, tiene la tavola della legge nella mano sinistra; alle spalle della figura il Sinai, ed ai lati un immenso roveto ardente ed una roccia da cui scaturisce acqua (Es 17,6).

L’interno della chiesa è diviso in tre navi da robusti pilastri a sezione rettangolare, collegati da ampie arcate. La navata centrale copre, nella sezione ovest una parte della cripta crociata e l’antica scala è protetta da una grata visibile presso l’entrata. Nel pavimento della navata sono sistemati due occhi di vetro che danno luce alla sezione ora sotterranea.

L’abside centrale è divisa in due piani. Il livello inferiore, al quale si scende per 14 gradini, è costituito dalla sezione est della cripta. In esso sono conservati i ricorsi reperiti dell’abside romana, l’altare crociato e l’inizio dei muri nord e sud della cripta, anche essi crociati. L’altare è dedicato ai tre discepoli testimoni della Trasfigurazione.

Il pavimento della cripta è stato fatto di legno allo scopo di conservare integralmente il fondo naturale. In esso si aprono due botole: attraverso quella di sinistra si vede la roccia, mentre quella di destra guarda nella parte dell’antica grotta che non stata riempita.

Nel livello superiore è collocato l’altar maggiore, dedicato alla Trasfigurazione.

Le navate laterali sono più strette della centrale e - come questa - terminano in absidi sopraelevate. Nell’abside nord l’altare, nel cui ciborio è conservato il S.mo Sacramento, è dedicato all’Immacolata; in quella sud, è dedicato a S. Francesco. Le due statue di bronzo, come le lampade ed i candelieri, sono opera di Tonnini. Brevi scale collegano le navi laterali alle relative absidi che sono in comunicazione con il livello superiore dell’abside centrale.

La decorazione della basilica è molto sobria. Sulle pareti della navata centrale corono due fregi, uno di pietra incisa che segue l’andamento delle arcate, ed uno rettilineo di mosaico sotto le finestre. Le pareti laterali della cripta sono coperte da pannelli musivi con motivo ricorrente. In tutti appaiono tre angeli aureolati, con vistose ali e lunghe tuniche bianche. Varia il significato che si rintraccia nei simboli. Un bambino adagiato sulla paglia tiene fra le mani un globo sormontato dalla croce: la Natività, abbassamento del Cristo che si fà uomo. Il calice e l’ostia: l’Eucarestia, trasformazione del Cristo in cibo e bevanda per l’uomo. L’agnello: il sangue del Cristo versato per la redenzione dell’uomo. La tomba aperta: la Resurrezione e l’Ascensione, ritorno del Cristo alla gloria eterna del Padre. Sulla volta della cripta, da un rosone centrale che racchiude il così detto monogramma costantiniano e le lettere alfa e omega, parte una croce costituita da raggi di luce.

Nel catino absidale del livello superiore è raffigurato l’episodio della Trasfigurazione. Sullo sfondo oro campeggia nel centro la figura di Gesù, con le vesti bianchissime; da un lato, Mosè e Pietro, dall’altro Elia e gli altri due Apostoli. Dal centro scendono raggi dorati.

I cartoni dei mosaici e le pitture nelle cappelle sono di Villani; le parti scolpite, quali i capitelli, di Piroli.

L’illuminazione è stata curata al massimo. Tre finestroni sopra la porta, nove finestre su ciascun lato della navata centrale, tre sul lato nord ed una sul lato sud delle navate laterali, sette finestrelle nel catino absidale e la grande vetrata della cripta, danno alla luce che entra liberamente una colorazione rosata ed aurea. Tanta luminosità predispone il visitatore alla lettura del Vangelo della Trasfigurazione, quasi ne fosse il prologo. Luce ancor più abbondante avrebbe dovuto scendere attraverso i tavelloni di marmo trasparente del tetto, posti al di sopra delle capriate. Per proteggere l’interno dalle infiltrazioni di acqua è stato purtroppo necessario coprire il marmo con lamine di metallo.

Una porta nella parete sud della chiesa conduce alla sagrestia, che corrisponde probabilmente alla foresteria dei Benedettini, ed al battistero. Il pavimento musivo di questo, considerato un buon esempio dell’arte bizantina del V-VI sec., è formato da un pannello centrale di tessere bianche, rosse e grigie, circondato da un doppio bordo di tessere degli stessi colori più il giallo, a motivi curvilinei. Il fonte battesimale non è stato rinvenuto. A destra ed a sinistra del battistero Avi Yonah segnalava resti di pavimenti musivi con tessere bianche e nere, anche essi bizantini.

Seguendo un corridoio che parte dal battistero in direzione nord, si arriva alla cripta crociata. Nel pavimento esistono quattro fori e diverse vaschette, ritenuti da alcuni quanto resta del luogo di culto cananeo: nei quattro fori avrebbero posato i sostegni dell’altare e le vaschette avrebbero servito per i sacrifici o le abluzioni.

A sud del battistero si trova la piattaforma della fortezza saracena dove erano installate le baliste.

Dal piazzale antistante il complesso benedettino si accede al museo.

Circa i reperti archeologici, Guérin notò che fra le macerie che coprivano la chiesa e la cripta erano stati trovati diversi tronconi di colonne di marmo; alcuni capitelli rovinati, di cui uno ornato di leoncelli ed un altro con teste di ariete; una pietra con croce greca fra due alfa e due omega; una infinità di tessere musive, alcune di vetro e altre di pietra rossa, bianca e nera; lampade di terra cotta e frammenti di fiale di vetro. Su una placca di marmo, rotta, restavano caratteri greci, ETAM KMXPI.

Padre Meistermann segnalò molti pilastrini di marmo bianco, con lati di 20 cm., scolpiti su due faccie e con scanalature sulle altre due, nonché pezzi di pannelli di marmo bellissimo. Tali resti fanno pensare che il luogo santo fosse circondato, oltre che da una grata metallica, anche da una transenna simile a quella che esisteva al Pozzo di Giacobbe in epoche bizantina e crociata.

P. Gassi descrisse vari capitelli e frammenti di capitelli, alcuni di marmo, altri di pietra. Egli pensava che i pilastrini della transenna non fossero posteriori al VI sec.; avrebbero quindi appartenuto alla chiesa vista dall’Anonimo di Piacenza nel 570. Enlart riteneva di particolare interesse i pezzi di un fregio che doveva aver fatto parte di una grande cornice, inciso a denti di ingranaggio con angoli retti rientranti e sporgenti. Essendo il disegno comune sia in epoca bizantina che crociata, la datazione è incerta. In quanto ai capitelli, Enlart giudicava belli soltanto i frammenti di epoca crociata che conservavano tracce di colori: “L’arte romanica, non ha prodotto nulla di più perfetto. Tali capitelli devono provenire dal portale a sei colonnine della chiesa del S. mo Salvatore. Provano che all’epoca romanica in Palestina come dovunque, i monaci di Cluny superavano nelle arti tutti i loro contemporanei”. Enlart disegnò, basandosi su resti abbastanza cospicui, il coronamento di una edicola che forse era addossata all’interno dell’abside crociata, dietro l’altare.

Nel piccolo museo sono attualmente visibili :
- le selci semi‑lavorate reperite da Stockton;
- piccoli utensili di metallo; punte di freccia, braccialetti, anelli e croci di metallo;
- frammenti di vasi vitrei e di ceramica; orci e recipienti vari; lucerne di ceramica, alcune delle quali smaltate di giallo e di marrone;
- piccoli lembi di mosaico a tessere variamente colorate;
- vari capitelli e basi di colonna; frammenti di colonnette, di pilastrini per transenna scanalati su due lati, e di fregi;
- una raccolta di monete romane, bizantine, bizantine con marchi arabi, omayyadi e mamelucche;
- varie iscrizioni arabe del tempo di el‑Adel (originali e calchi) intere e a frammenti;
- una iena imbalsamata, unico esemplare di tutte le bestie feroci dei tempi andati.

Altri reperti sono sistemati vicino alla porta di ingresso del museo e nel giardinetto ad est.

A sud del piazzale si trovano la vecchia Casa Nova non più utilizzata, la discutibile torretta medioevaleggiante e 1’ingresso alla attuale Casa Nova.

Questo immette nel salone la cui parete sud, formata da due ampie vetrate, è seguita da un terrazzo. Da qui si gode uno dei più bei panorami della Galilea, se non il più bello in senso assoluto: la valle di Esdrelon.

Tabor: ConclusioneDalla scena gloriosa della Trasfigurazione allo sconforto mortale di Saul, dalla cima investita di luce del Tabor alle catapecchie diroccate di Endor. Abbiamo toccato vari luoghi, riferito storie diverse, talvolta drammatiche talvolta liete. A chi legge questo libro in Terra Santa vorremmo consigliare di essere meno frettoloso di van der Velde, il quale potè concedersi solo un quarto d’ora a Naim, meno superficiale di Le Camus, il quale ritenne inutile salire al Tabor. Ogni posto ha una sua parola particolare da direi e può ispirare considerazioni particolari: Daburiyeh, la forza della preghiera; Iksal, l’abbandono del mondo per la vita eremitica; il Cisson e Affuleh, anticipazione del Dieu le veult dei Crociati; Iezrael, la condanna dell’ingordigia; En Harod, la vittoria è di chi osa; il Gelboe, saper morire; il Piccolo Hermon, l’uomo è signore del Sabato; Sunem, il premio della generosità; Naim, le lacrime asciugate; Endor, soltanto Dio può confortare. Queste sono le componenti di un quadro nel cui centro e al di sopra di tutto il Tabor, fiero della sua maestà, si alza, simbolo della Trasfigurazione.